mercoledì 4 settembre 2024

IL “CANTO DEI NUOVI EMIGRANTI ” DI FRANCO COSTABILE, ICONA STRUGGENTE DELLA CALABRIA ( di Bruno Demasi)

 
Quando, qualche giorno fa, in occasione del centenario della nascita di Franco Costabile, ho voluto ricordarlo, nel silenzio quasi generale, su questa pagina ( RITROVARE LA CALABRIA E LA POESIA CON FRANCO COSTABILE ( di Bruno Demasi) ) attraverso una selezione (certamente insufficiente e ristretta) delle sue poesie, volutamente ho tralasciato per ragioni di spazio la sua lirica più lunga, quasi un poemetto a sé stante, il “Canto dei nuovi emigranti calabresi”. Oggi alcune amiche e alcuni amici me lo fanno rilevare con insistenza chiedendomi di pubblicare questo “ Canto”, che è sicuramente la bandiera per tante, troppe braccia e menti calabresi che , abbandonando questa terra, sono andate a rendere più belle e più ricche altre regioni della Penisola e altre nazioni .

    E’ un canto che, pur sintetizzandoli tutti,  sfugge a ogni schema possibile del meridionalismo, se non altro per il fatto che in esso l’Autore riecheggia anzitutto le sensazioni dolorose da lui avvertite per la prima volta quando da bambino lascia la Calabria e si reca a Tunisi con la madre per riabbracciare e cercare di ritrovare il padre che li aveva abbandonati e che opporrà loro l’estremo drammatico rifiuto. Lo stesso dolore che egli proverà , più grande di età, quando dovrà trasferirsi a Messina e poi a Roma, dove metterà fine ai suoi giorni appena a quarantuno anni.

   Più che mai questo poema lirico, col ritmo dei suoi versi, col repertorio sempre nuovo e struggente delle sue immagini dà ragione della poetica inusuale di Franco Costabile e del giudizio entusiasta espresso su di essa da Franco Caproni, secondo cui alla poesia di Rocco Scotellaro è stata data l’importanza e l’attenzione che meritava, ma la lirica di Franco Costabile ha sicuramente una valenza ancora maggiore. Il valore aggiunto di essa, oltre che nella forza dei suoi contenuti e del suo impeto lirico trascinante, sta proprio nella sua personalissima metrica , che andava e va ancora contro le mode poetiche e i linguaggi poetici estenuanti  e spesso dolciastri  della seconda metà del secolo scorso e anche  di oggi.

     In questa composizione la sintesi struggente della grandezza di questa terra e della nostra gente, la parabola di una civiltà fatta sicuramente da intelligenze e sapienze ormai dimenticate nella Calabria dei vinti e degli ignavi ( Siamo l’odore / di cipolla/ che rinnova/ le viscere d’Europa) e dal deserto rimasto nelle nostre contrade e nelle vecchie case abbandonate ( Restano gli zapponi/ dietro la porta, /i cieli, /i vigneti. /La pietra /di sale sulla tavola.) 
 
    Non  scrivo altro per non contaminare la bellezza di questo capolavoro, ma chi tarderà ancora a conoscere questi versi si priverà di un unicum davvero prezioso!

                                                                                                                                 Bruno Demasi



CANTO DEI NUOVI EMIGRANTI CALABRESI

( di Franco Costabile)


Ce ne andiamo.
Ce ne andiamo via.

Dal torrente Aron
Dalla pianura di Simeri.

Ce ne andiamo
con dieci centimetri
di terra secca sotto le scarpe
con mani dure con rabbia con niente.

Vigna vigna
fiumare fiumare
Doppiando capo Schiavonea.

Ce ne andiamo
dai campi d’erba
tra il grido
delle quaglie e i bastioni.

Dai fichi
più maledetti
a limite
con l’autunno e con l’Italia.

Dai paesi
più vecchi più stanchi
in cima
al levante delle disgrazie.

Cropani
Longobucco
Cerchiara Polistena
Diamante
Nao
Ionadi Cessaniti
Mammola
Filandari…

Tufi.
Calcarei
immobili
massi eterni
sotto pena di scomunica.

Ce ne andiamo
rompendo Petrace
con l’ultima dinamite.
Senza
sentire più
il nome Calabria
il nome disperazione.

Troppo tempo
siamo stati nei monti
con un trombone fra le gambe.
Adesso
ce ne scendiamo
muti per le scorciatoie.

Dai Conflenti
dalle Pietre Nere da Ardore.

Dal sole di Cutro
pazzo sulla pianura
dalla sua notte, brace di uccelli.

Troppo tempo
a gridarci nella bettola
il sette di spade
a buttare il re e l’asso.
Troppo tempo
a raccontarci storie
chiamando onore una coltellata
e disgrazia non avere padrone.

Troppo
troppo tempo
a restarcene zitti
quando bisognava parlare, basta.

Noi
vivi
e battezzati
dannati.

Noi
violenti
sanguinari
con l’accetta
conficcata
nella scorza
dei mesi degli anni.
Noi
morti
ce ne andiamo
in piedi
sulla carretta.
Avanzano le ruote
cantano i sonagli verso i confini.

Via!
Via
dai feudi
dagli stivali dai cani
dai larghi mantelli.

Ussahè…
Via
Via!
Via
dai baroni.
I Lucifero
I conti Capialbi
I Sòlima gli Spada
I Ruffo
I Gallucci.

Usciamo
dai bassi terranei
dal sudario
dei loro trappeti
dai parmenti
della vendemmia
profondi
a lume di candela
e senza respirazione.

Via
dai Pretori
dalla Polizia
dagli uomini d’onore.
Non chiamateci
non richiamateci.

È scritto
nei comprensori
È scritto
nei fossi nei canali
È scritto
in centomila rettangoli
alto
su due pali
Cassa del Mezzogiorno
ma io non so
che cosa
si stia costruendo
se la notte
o il giorno.

Ci sono raffiche
su vecchie facciate
che nessuno leva: l’occhio
del Mitra
è più preciso
del filo a piombo della Rinascita.

Addio,
terra.
Terra mia
lunga
silenziosa.

Un nome
non lo ebbe
la gioventù
non stanchiamoci adesso
che ci chiamano col proprio cognome.

Noi

Noi
ce ne siamo
già andati.
Dai Catoi
dagli sterchi orizzonti.

Da Seminara
dalle civette di Cropalati.

Dai figli
appena nati
inchiodati nella madia
calati
dalle frane
dall’Aspromonte
dei nostri pensieri.

Spegnete
le lampadine della piazza.

Scordiamoci
delle scappellate
dei sorrisi
dei nomi segnati
e pronunciati per trentasei ore.

Cassiani
Cassiani
Cassiani

Cassiani
Foderaro Galati
Foderaro
Antoniozzi
Antoniozzi
Cassiani
Cassiani
La croce
sulla croce,
diceva l’arciprete.
E una croce
sulla croce,
segnavano le donne.
andavano
e venivano.
Foderaro
Antoniozzi
Antoniozzi

È stato
sempre silenzio.

Silenzio
duro
della Sila
delle sue nevicate a lutto.

È stato
il pane a credenza
portato
sotto lo scialle
all’altezza del cuore.
Sono stati
i nostri occhi stanchi
guardando
le finestre illuminate
della prefettura.

Carabinieri,
fermatevi.
Guardate,
giratevi
non c’è nemmeno un cane.
Siamo
tutti lontani
latitanti.

Fermatevi.
Restano
gli zapponi
dietro la porta,
i cieli,
i vigneti.
La pietra
di sale sulla tavola.

I vecchi
che non si muovono
dalla sedia,
soli
con la peronospera nei polmoni.

Le capre
la voce lunga
degli ultimi maiali scannati.
L’argento
a forma di cuore, nella chiesa.

Le ragnatele
dietro i vetri, le madonne.
La ragnatela del Carmine
la ragnatela di Portosalvo
la ragnatela della Quercia.
 
Restano le donne
consumate da nove a nove mesi
con le macchie
della denutrizione
della fame.
Le addolorate
Le pietà di tutti gli ulivi.

Lavando
rattoppando
cucinando su due mattoni
raccogliendo
spine e cicoria.

Cancellateci
dall’esattoria.
Dai municipi
dai registri
dai calamai
della nascita.

Levateci

Scioglieteci
dai limoni
dai salti
del pescespada.
Allontanateci
da Palmi e da Gioia.

Noi
vivi
Noi
morti
presi e impiccati
cento volte
ce ne siamo già andati
staccandosi dai rami
dai manifesti della repubblica.

Di notte
come lupi
come contrabbandieri
come ladri.

Senza un’idea dei giorni
delle ciminiere degli altiforni.

Siamo
in 700 mila
su appena due milioni.
Siamo
i marciapiedi
più affollati.
Siamo
i treni più lunghi.
Siamo
le braccia
le unghie d’Europa.
Il sudore Diesel.
Siamo
il disonore
la vergogna dei governi.

Il Tronco
di quercia bruciata
il monumento al Minatore Ignoto.

Siamo
l’odore
di cipolla
che rinnova
le viscere d’Europa.
Siamo
un’altra volta
la fantasia
il 1° giorno di scuola
senza matita
senza quaderno
senza la camicia nuova.

Toglieteci
dalle galere.
Non ubriacateci.

Liberateci
dai coltelli di Gizzeria
dal sangue dei portoni.
Non chiamateci
da Scilla
con la leggenda del sole
del cielo
e del mare.

Siamo
bene legati
a una vita
a una catena di montaggio
degli dei.

Milioni di macchine
escono targate Magna Grecia.
Noi siamo
le giacche appese
nelle baracche nei pollai d’Europa.

Addio
terra.
Salutiamoci,
è ora.