martedì 31 gennaio 2023

La penna del Greco: LE LEVANTINE SULLE BALZE DELL'ASPROMONTE (di Nino Greco)



   Pagine come questa sono sintesi  estremamente  asciutte e dolorose che descrivono e fanno comprendere meglio di mille reportages un contesto singolare di vita in cui si mescolano ricchezze, povertà, delusioni e speranze in un unicum che solo chi ha vissuto l'infanzia sulle balze dell'Aspromonte può capire.

   Il Levante, vento micidiale e rigeneratore, infatti in un momento toglie e dà, distrugge e fa rinascere. Il Levante dalle nostre parti è il "mastro", oggi diremmo il mainstream di tutti i venti e di tutte le stagioni, qualcosa da cui di difendersi, ma anche da invocare per rinnovarsi.

   E, come sempre, il Greco, che nel suo cognome echeggia un altro vento che non si risparmia sui fianchi dell'Aspromonte, con pochi tratti riesce a farci comprendere fino in fondo anche questo aspetto ancestrale della nostra terra.(Bruno Demasi)



     Ho visto affacciarsi il levante tante di quelle volte che non ho potuto tenerne il conto; era minaccioso quando compariva da quella cresta di montagna e spingeva le nuvolate verso il paese.
“Si ‘rrocculannu i nuvolati”
ripetevamo noi ragazzi dopo aver sentito dire quelle parole dai nostri vecchi; e le piogge si mischiavano alle venticate come in un gioco primitivo, come se fosse una danza al ritmo di milonga dal volteggio repentino su passi improvvisati al momento e figli di un’intesa millenaria tra danzatori superbi come solo il vento e l’acqua sanno essere. 

Quelle giornate dovevano scorrere così, con quei ritmi, con quei colori e con quei sapori; tutto si ammantava di intimo e la ruota del braciere diveniva il cuore della casa, il punto dove raccogliersi per scaldarsi e per ascoltare dalla voce del nonno qualche storia passata. Il fuoco maturo del carbone di ulivo, tenuto sottotono da un leggero strato di cenere, oltre a scaldarci si prestava benevolmente ad arrostire le patate poggiate tra le braci e il bordo di rame del braciere; stavo attento a girarle per tempo per non farle ‘ntozzulare.
   Mio nonno suggeriva sempre di scegliere le patate meno grosse, si arrostivano prima e meglio, e la fragranza riempiva come una magia l’aria del “basso” dove abitavamo. Lui usava alzare gli occhi dalle pupille ormai nascoste dietro al velo irrispettoso delle cataratte; non ci vedeva più e quando muoveva lo sguardo, e lo teneva sospeso in un punto indeterminato della penombra, non faceva altro che prestare l’orecchio per cogliere i frastuoni della levantina.

- Se durasse solo un giorno sarebbe cosa buona - diceva, pensando a coloro che erano impegnati nella raccolta delle olive.

-La troppa acqua si porta via le olive che il vento ‘rramazza, speriamo che non faccia danni - e aggiungeva- “ma quandu esti levantina a dassi a sira e t’a trovi a matina”.

   In quelle parole si celavano le speranze spesso deluse poiché il levante, indomito ed energico, quando iniziava le danze andava avanti per due o tre giorni. Bisognava convivere con le levantine invernali e abbracciare ciò che di buono lasciavano sul terreno dopo il loro passaggio, dalle olive ai rami abbattuti, quelli più deboli carichi di frutto o malati; e capitava anche che a quella forza invisibile non resistevano nemmeno ulivi sarmarichi carichi di frutto che si coricavano da un lato adagiandosi sul terreno e alzando all’aria i grovigli antichi delle radici saltate fuori che sembravano tante braccia rivolte al cielo.
    Tra le parole degli anziani non avevo mai ascoltato una di astio nei confronti di quel vento che arrivava dall’est da dietro quella montagna immobile e gagliarda; non scorgevo nemmeno segni di passiva rassegnazione: era un fenomeno naturale e doveva essere accettato forse perché voluto da una mano divina. Era un tempo dell’anno e come tale doveva essere vissuto e superato senza tanti smarrimenti, anche la legna sarebbe servita per alimentare le cucine e per trasformarla in carbone per l’inverno successivo. 

    E di carbone ne produceva anche mio padre, il bastevole per la nostra casa; aveva imparato a portare a cottura le “fosse” dopo aver visto all’opera i carbonai di professione. Tutto giovava, anche saper fare il carbone. Meno soldi si spendevano e meglio era, ma non era inseguire una logica del risparmio: i soldi non c’erano, e quei pochi che c’erano non potevano essere spesi per il carbone.

   Sicché ogni anno si metteva d’accordo con Pasquale e a luglio dedicava venti giorni di quel mese alla cottura delle fosse di carbone. Un terzo del prodotto era nostro. Un anno, a Vermicitri, un uliveto confinante con la partita di vigna che avevamo a Sanzo, portò a cottura tre fosse tutt’e tre di pari stazza.

-Una è nostra – mi disse, mentre gli porgevo la legna per la civatura. Dormivamo nel palmento della vigna e ogni tre/quattro ore andavamo a controllare che non ci fossero cedimenti nelle pareti delle “fosse”, che tutto procedesse bene. La chiaria di quelle nottate me le faceva apparire come tre vulcani fumanti, erano quiete,serene. 
 
   Una notte gli chiesi:

- anziché alzarci e fare trecento metri a piedi per andare a controllare perché non approntiamo un pagliericcio e riposiamo nei paraggi delle fosse?

- Non si dorme mai sotto gli alberi durante la notte, c’è l’aria tossica- rispose.

Non replicai a quella sua affermazione, non diceva le cose a caso e tutto aveva un senso in ciò che gli vedevo fare.

Furono anni di piccole e importanti scoperte quelli della mia adolescenza; e, quando alle Medie il professore ci spiegò la fotosintesi clorofilliana, mi ricordai di quelle notti a civare le fosse e fu naturale per me abbinare quella definizione scientifica a un fenomeno che mio padre a modo suo e con la sua semplicità aveva già pensato a insegnarmi.

mercoledì 11 gennaio 2023

La Calabria delle sorprese: UN RECORD DI LUNGA VITA A MESSIGNADI NELL'800 ( di Rocco Liberti)

    Un' altra pagina, nata non  a caso, in cui lo storico Rocco Liberti, partendo da un episodio di cronaca apparentemente banale, ricostruisce uno spaccato assai eloquente della vita e della società del territorio aspromontano nella Provincia Reggina con l'abituale chiarezza e meticolosità di informazioni, ma soprattutto con un'arte innata di condurre analisi storiche in modo lieve e avvincente, a volte anche ironico, senza paludamenti accademici di sorta.
   Stavolta l'oggetto della puntualissima ricerca è un singolare episodio di positiva cronaca aspromontana risalente addirittura a quasi due secoli fa, quando evidentemente la grande stampa nazionale si interessava ai nostri villaggi, ai nostri paesi non per episodi criminosi o solo per arricchire la retorica di un meridionalismo alla rovescia , come sta avvenendo in questi ultimi decenni. Ed è per questo un documento notevole che ci riguarda tutti da vicino e per tanti motivi, non ultima la necessità di  una riflessione non superficiale sui nostri contesti di vita paesana e sulla loro storia sulle falde di un Aspromonte evidentemente ancora poco conosciuto. La nuova Oppido aveva poco più di 30 anni di vita all'epoca dei fatti studiati  dal Liberti, mentre quelle che ora sono sue frazioni o contrade (Messignadi, Zurgonadio e Tresilico) vantavano già una loro, sia pur umile, storia che ogni tanto vale la pena  ripercorrere sulla scorta di studi sintetici, ma preziosi e appassionanti, come questo.
    Si tratta della notizia della morte di un pastore ultracentenario, ma si tratta anche di uno squarcio inatteso e avvincente sulla vita del nostro territorio all'alba del XIX secolo, quando l'Unificazione era ancora di là da venire, o addirittura da pensare, e con essa tutta la retorica inizialmente meridionalista / nazionalista , oggi  soltanto confusionaria che l'accompagnarono e l'accompagnano ancora.
    Leggere attentamente  per credere! (Bruno Demasi)


    Il Giornale del Regno delle Due Sicilie alla data del 27 maggio 1825 (n. 123, p. 492) rendeva noto che nel villaggio di Messignadi, nella provincia della Calabria Ulteriore, il giorno 21gennaio si era verificato il decesso di un uomo di venerandissima età. Aveva egli raggiunto nientemeno che i 116 anni. Del defunto offriva notizie abbastanza dettagliate. Aveva egli nome Leonardo Barbaro e proveniva da Zurgonadi, altro villaggio e sin dalla fanciullezza esercitava il mestiere di caprajo. Nato nel 1709, nel 1734 ha preso in moglie Teresa Sia, che gli ha regalato ben dieci figli, all’epoca di cui trattasi già deceduti. Persa la compagna nel 1771, si è risposato con Francesca Cosmo, da cui ha avuto altri quattro figli. Di questi al tempo n’era ne viveva soltanto uno. La seconda moglie se n’è andata al Creatore nel 1802. Stabilmente sano come un pesce, «Non mai soffrì febbre, o altre malattie, né mai conobbe medicamenti. Solo negli ultimi giorni di sua vita perdé repentinamente l’uso degli arti inferiori. Sino al dì del cennato mese di gennaio volle costantemente restare, e dormire in campagna presso gli armenti del figlio». L’ottimo stato di salute sicuramente sarà dipeso anche da una esistenza condotta in modo alquanto morigerato. Si scrive, infatti, che «Il suo nutrimento fu sempre eguale, cioè di fagiuoli, e pane di granone, la bevanda era di acqua e latte».

    Barbaro aveva ancora tutti i denti e la canizie era di là da venire, ma soprattutto «le facoltà intellettuali erano state sempre perfette». Il suo ambito era però piuttosto ristretto. Conosceva appena Messignadi, Tresilico, Zurgonadi e Oppido e stimava addirittura che quest’ultima fosse «la città più famosa del mondo». Il mare lo aveva visto una volta, a Pietrenere nel 1743, quando, in occasione dell’epidemia della peste, il conte Mahony aveva stabilito un cordone sanitario. Rammentava benissimo quando nel 1718 sono arrivati i Tedeschi a Oppido con uno squadrone di cavalleria e che vi si erano succeduti ben otto vescovi. Il giornale così concludeva: «Il di lui temperamento la fine era ilare e tranquillo. Ha sempre goduto la riputazione di uomo dabbene». Non c’è che dire, un bel ritratto di antico stampo delle nostre operose comunità.

   Naturalmente, un così raro avvenimento ha dovuto suscitare una vasta eco se del pari la Gazzetta di Milano di lunedì 6 giugno, una decina di giorni dopo, ha riportato integralmente l’articolo del “Giornale”. Si riproporrà più tardi nella sua edizione del 16 giugno (n. 72, p. 4) il Giornale di Firenze, che ha ripresentato l’articolo con alcune minime variazioni di carattere letterale. In realtà, tali pur importanti giornali forse 
saranno stati preceduti dall’Osservatore del Lago Trasimeno di Perugia che nell’edizione contrassegnata 30 aprile alla pag. 40 così pubblicava: «Longevità. Nel villaggio di Mesignadi, provincia di Calabria, morì il 21 dello scorso aprile Leonardo Barbaro dell’età di anni centosedici. Nacque nel 1709, e sin dalla fanciullezza si occupò al mestiere di caprajo. Non soffrì mai febbre o altre malattie, né mai conobbe medicamenti».

   Dopo simile notizia non restava che indagare in merito fra gli atti di morte dello stato civile del Comune ed ecco ciò che siamo riusciti a ricavare. Il 23 gennaio (Il documento è stilato il 25), quindi non 21, era deceduto in Messignadi Leonaldo Barbaro di anni 113, e non 116.
 
    Il Barbaro faceva di professione il pecorajo e i suoi genitori rispondevano ai nomi di Antonino Barbaro e Rosa di Brizzi di Zurgonadi. A dichiararne la morte all’Eletto Michele Lando, ufficiale dello Stato Civile per Messignadi, sono stati Santo Coletta fabricatore e Andrea Ligori bracciale. Il cognome Barbaro e il nome Lonardo risultano variamente presenti a Zurgonadi e pure nel finitimo Tresilico in precedenza. Nel catasto onciario di Zurgonadi del 1746 appare un Lonardo Barbaro di a. 7, il cui nucleo familiare è composto dalla madre, 2 fratelli e 4 sorelle, assente il cognome Brizzi, ch’era invece sufficientemente diffuso a Messignadi. Di conseguenza, la mamma sarà stata proprio di Messignadi e avrà condotto qui con sé anche la prole[1]

   Ancora nel 1901 s’insisteva sul Barbaro morto in età di 116 anni. Eppure bastava poco per appurarne quella esatta. Solo una capatina all’archivio del Comune di Oppido, ma evidentemente nessuno ci ha pensato ovvero si è assunta la briga di farlo[2].
Rocco Liberti

[1] Archivio Stato Napoli, Catasto onciario 1746, f. 349.
[2]
Alfredo Comandini, L’Italia nei cento anni del secolo XIX (1801-1900), Milano, A. Vallardi 1901, p. 1288; Filippo Tucci, Il centenario messignadese, 11 luglio 2013, blog Messignadesi nel tempo.