giovedì 17 giugno 2021

LA RICCHEZZA BIZANTINA DI OPPIDO (Hagia Agathè) A META’ DEL MILLE – Parte I

                         di Bruno Demasi 

 Che Oppidum (Hagia Agathè) in epoca bizantina dominasse dall’alto del suo colle l’ampio territorio della Tourma delle Saline  ( territorio che, seppure limitato all’incirca al bacino dell’odierno Petrace e dei suoi affluenti, non era affatto piccolo) oggi sembra quasi inverosimile se si osserva il progressivo spopolamento del territorio nei secoli , ma anche il dissesto orografico attuale del suo territorioi. Occorre dunque proiettarsi nell’epoca presa in esame per comprenderne le ragioni, i caratteri della popolazione che abitava queste terre e il paesaggio che oggi in gran parte appare frantumato a causa dei movimenti tellurici che hanno caratterizzato i dieci secoli che ci dividono dal periodo che stiamo indagando, in particolare il sisma del 1783.
       La pubblicazione ad opera di Andrè Guillou delle pergamene greche relative alle donazioni private fatte alla diocesi di Oppido nel periodo che va dal 1050 al 1064/65 ( “La Theotokos de Hagia Agathè – Oppido - , B.A.V., 1972) ha aperto un amplissimo squarcio sull’esistenza e sulla vita della città più grande e importante dell’attuale Piana in epoca bizantina, fornendo una serie molto ricca di informazioni a tutti i livelli, eccetto forse una: la consistenza numerica precisa della sua popolazione di cui si tenterà di parlare nella seconda parte di questo studio . 
     Un dato però è significativo fin d'ora su Oppido: non doveva trattarsi nè di un centro minuscolo, nè tantomeno di un oscuro villaggio periferico poco e male abitato se è vero che l’amministrazione bizantina , molto attenta e perspicace, nei decenni, o almeno negli anni, precedenti la metà del secolo aveva inteso ubicarvi uno dei suoi più importanti avamposti civili e religiosi nell’Italia meridionale, un vescovado di frontiera che, insieme ai pochi già esistenti o coevi (ad esempio quello di Cassano), arginasse il dilagante strapotere normanno che si stava  affermando  più a nord.  La chiesa romana però davanti a questa prersa di posizione della chiesa greca ebbe una reazione assolutamente spropositata, tanto che Benedetto VII rispondeva subito elevando la diocesi di Salerno a metropolìa e dandole come diocesi suffraganee non solo i vescovadi di Nola, Conza e Paestum, ma anche quelli di Acerenza, Cosenza, Bisignano e Malvito. E pochissimi anni dopo Stefano IX, nel 1058, ne allargava addirittura la giurisdizione con le diocesi suffraganee di Martirano e di Marsico.
   La nuova diuocesi, quella di Oppido, nacque dunque  suffraganea della chiesa metropolita di Reggio, che comprendeva alla fine della dominazione bizantina, dopo la soppressione dei Vescovadi di Tauriana e di Vibo Valentia ( riuniti da Gregorio VII intorno al 1080 per formare la diocesi di Mileto) le diocesi greche di Gerace, Rossano, Tropea, Amantea, Squillace, Crotone, Nicastro, Cassano e Oppido (Hagia Agathè) ( F. Chalandon: Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, Paris, 1907).
    Per poter comprendere  quale fosse l’economia, dunque la struttura della popolazione e della società all’epoca dell’istituzione della sede diocesana di Hagia Agathè occorre cercare di stabilire quale fosse la conformazione del territoprio e del paesaggio almeno 7 secoli prima dello sconvolgimento radicale prodotto dal sisma rovinoso del 1783, che sconvolse radicalmente l'assetto territoriale, sociale ed economico. 
    Si pensi in proposito che  la dissoluzione orografica del territorio provocata dal Flagello del 1783 fu impressionante. Solo a titolo di esempio,  la piana di Cannamaria (Cannabareio) che si estendeva parallelamente all’altopiano delle Melle, si abbassò di parecchi metri e si potè osservare la sua pasrte più a valle tagliata di netto da alcune colline franose nelle località poi denominata Santacroce o Cappella. Il corso regolare, qui rtettilineo, del torrente Tricuccio si ritrovò sbarrato in parecchi punti e se ne trovano ancora le tracce in diversi e tortuosi ruscelli e affluenti. Vari e importanti edifici preesistenti, depositi di materiale agricolo, mulini e frantoi oleari, opifici per la tintura della seta, in gran parte di proprietà della nobile e ricca famiglia Grillo, s’inabissarono interamernte senza lasciare alcuna traccia ad eccezione del muro di cinta di un delizioso giardino d’inverno (orangerie) che si ritrovò arroccato addirittura 100 metri a monte del fiume dal quale veniva prima irrigato. Un’ampia quantità di terreni dislocati sul versante del torrente Riganati si ritrovò unita ai campi originariamente ubicati sul versante opposto del fiume, nei pressi di Castellace, e il terreno sul quale scorreva il torrente, frantumato quasi per contraccolpo, si ritrovò a scorrere tra le rovine in direzione S-W, là dove si apre la vallata che oggi reca il nome di “Vaccari” (A:Goullou, op. cit., pag.22).
    Frantumazioni e frane simili si produssero nel resto del territorio meno vicino alla città persino nei terreni meno franosi. Si tramandava che un  allevatore di maiali di Tresilico, tale Giuseppe Buda, ne fu testimone oculare in una campagna di Vagliano di proprietà del principe di Cariati. Dall’alto di una collina da cui stava guardando una mandria di maiali, vide all’improvviso spaccarsi letteralmente in due il prato che lo sovrastava, formando una profondissima fenditura tra due piattaforme che recano il nome di “Lamia” e che lasciarono il guardiano da una parte e i porci dall’altra. I letti delle sorgenti, riempiti ex novo, scavarono nuove foci. Dai pozzi scompaginati, l’acqua si diffuse in ogni dove senza che fosse spinta da alcuna pressione. Nelle pianure paludose sorgenti ricche si inaridirono e altre nacquerro in zone aride oppure nei crepacci rocciosi,iniziando a scorrere a metà delle macchie costiere. Grandi blocchi di tufo e di trachite precipitati agli sbocchi delle valle di Cumi, Crisma e Teguri, funsero da dighe nei letti di piccoli torrenti facendoli debordare e stagnare nelle campagne circostanti. 

    Non meno sorprendenti, ma più desolanti ancora furono  i fenomeni che si produssero all’interno della città di Oppido. In qualche secondo edifici antichi di circa 8 secoli crollarono in rovina con grande fracasso, riducendosi alcuni a mucchi informi di pietre e calcina, altri spezzati letteralmente in due o con dei muri distrutti a forma di gradini o completamente rasi al suolo, altri ancora con il muro della facciata crollato a mostrare lo spaventoso scompaginamento della parte interna della costruzione. Palazzi, case borghesi, poveri tuguri furono abbattuti, demoliti,rovesciati....(C. Zerbi Della città, chiesa e diocesi di Oppido, 1876, pag.55-59)
     Lo sapaccato dello sconvolgimento sismico nei suoi effretti più spettacolari a livello geomorfologico del territorio, consente appena di immaginare realisticamente quante e quali attività fossero in precedenza  fiorenti su un territorio molto ricco e dunque in grado di ospitare una popolazione di tutto rispetto sia nella concentrazione urbana di Hagia Agathè sia in ogni castron da essa dipendente sia nei territori rurali (choria)
    A metà del secolo XI Oppido doveva sicuramente contare  una popolazione industriosa e varia, numericamente più che rispettabile e dominava un territorio molto ampio e fertile, nè troppo montuoso, nè troppo pianeggiante, caratterizzato da larghe zone di foresta e da amplissimi  terreni collinari coltivati a vigne, che erano tanto diffuse quanto i fondi utilizzati per la coltivazione del frumento e dei cereali minori, come l’orzo. Non esisteva sicuramente iunvece la coltura dell’ulivo che oggi domina ampiamente ancora la Piana di Gioia Tauro. La vigna ha peraltro gli stessi gusti dell’ulivo: entrambi prediligono i terreni derivanti da sedimenti sabbiosi, i conglomerati un po’ friabili, i terreni di disgregazione calcarea, ma la vigna sopporta meglio il freddo e riesce a prosperare ad altitudini maggiori rispetto all’ulivo.  ( A. Goullou, op. cit, Atto n.29,I.7). 
 

    I boschi di querce e di castagni occupavano  di sicuro un posto importante nell’economia del tempo per la fornitura non solo di legname da costruzione, ma anche da ardere e per quella di nutrizione del bestiame minuto, come le ghiande per i maiali. Come l’accesso alle sorgive e ai pozzi, la foresta sembra dar luogo solamente a diritti di godimento e non di proprietà fissa e ciò induce a pensare che , almeno limitatamente a questo caso, il bene appartrenesse alla collettività nel suo insieme e non a singole persone o famiglie o corporazioni. Il che non è poco (Ibidem).
    Il territorio premontano e montano ha un posto di rilievo nelle donazioni al vescovo, quindi nell’economia della tourma. Lo intuiva Candido Zerbi nella sua cronistoria oppidese quando asseriva che il territorio alto collinare su cui sorgevano gli insediamenti era purificato dalle brezze fortissime che ne allontanavano ogni forma di stagnazione foriera di malattie endemiche tuttr’altro che rare. Era anche una risorsa incredibile per la pastorizia malgrado la presenza degli orsi, che in inverno scendevano verso valle alla ricerca di cibo, attestata da molti cognomi citati nelle donazioni che derivano da questo animale.. I mulini ad acqua sono menzionati in cinque donazioni e costituiscono evidentemente il metro di misura della ricchezza tecnologica di derivazione araba ncui si era pervenuti. 
 
    Il chorion di Boutzanon (nei pressi dell'attuale Castellace) capoluogo del droungos omonimo è al contempo comune rurale e circoscreizione fiscale, formato da un centro abitato circondato perfettamente da una serie di proasteria e di agridia dislocati circolarmente con una geometria di confini per i tempi assolutamente precisa e sorprendente.
    Le donazioni comprese negli atti notarili coprono un arco di circa quindici anni appena. Senza contare eventuali donazioni precedenti ad esse o successive, di cui al momento non abbiamo notizia, esse indicano che il vescovo di Oppido viene messo a capo di una ricchezza considerevole: saline, mulini, terre coltivabili e in grandissima parte coltivate, vigne, frutteti, gelseti per l’allevamento del baco,  terreni montani per la transumanza, foreste per la legna, diritti di accesso alle sorgenti. Si tratta di beni dati al vescovo in piena proprietà salvo il caso di un monaco (Antonio Chatzarès) che cede alla cattedrale di Hagia Agathè i propri diritti di enfiteusi su una vigna di 100 piante. 
   Una ricchezza sorprendente in tempi di grandi sconvolgimenti civili e sociali ormai dimenticati.

sabato 5 giugno 2021

ANTONINO FRISINA DA DELIANUOVA, DETTO "BIJU"

    Uno di più singolari e fertili poeti di Calabria dimenticato dalla storia letteraria ufficiale, ma non dalla gente.

di Bruno Demasi



    "Sunnu trent'anni, menza vita d'omu
        chi Bidhu faci lu Maestru cumunali;
          scriviu di poijsi cchiù di nu tomu,
              pe’ rallegrari l'esami finali.
           E ndavi tanti di li storiji e tanti
        chi pot'arricchiri l'orbi tutti quanti".
                              (“Senza Pojesia”)

    Così scriveva nell’ultimo scorcio dell’Ottocento Antonino Frisina, sacerdote, “Bidhu”( o Biju), com’egli stesso si era soprannominato , nella lirica “Senza Pojesia”. Un momento di sconforto per tante vicende di malattia e di difficoltà che la vita non risparmia a nessuno , l’occasione di ripensare alla propria esistenza , di ripercorrere le piste di una corsa attraverso il tempo sulle balze dure di alta collina e montagna. Quell'Aspromonte più greve e bello che con i suoi scabri sentieri ridava, e restituisce ancora oggi, vita essenziale alla civiltà dei Bruzi, dei Greci e dei Bizantini, mai sopita del tutto, che riaffiora in questi versi, in questi ritmi sonori e incalzanti.
    Era nato a Paracorio , oggi Delianuova, nel pieno e freddissimo inverno del 1832 in una famiglia di massari che già annoverava otto figli e che con lui e un altro fratello ancora più giovane sarebbe arrivata a ben dieci eredi. Una famiglia per l’epoca benestante, ricca  di sangue e di animali, ma anche di terra, tanto da potersi permettere di mantenere il giovane Antonino nel Seminario di Oppido Mamertina, dove si perpetuava a costo di grandi sacrifici un’ottima scuola con eccellenti docenti e dove sicuramente il ragazzo di ingegno già acutissimo avrebbe trovato pane per i propri denti.
    Il progetto paterno non solo non fallì, ma vide l’ordinazione sacerdotale di Antonino nel 1858 e subito dopo il suo rientro in paese dove cominciò a svolgere il suo ministero e presto anche quello di maestro elementare comunale, che continuò con grande scrupolo fino ai primi anni del Novecento e addirittura, sia pure in modo privato e occasionale , fino alla morte avvenuta il 21 novembre del 1917 nel pieno dello squallore e della miseria seminati anche da queste parti dalla Grande Guerra. 

    Furono molte centinaia gli allievi che da lui appresero l’arte del leggere e dello scrivere con un metodo ,certo convenzionale e arido, ma efficace, che faceva leva e veniva supportato dal grande amore che l’uomo aveva per la pedagogia e la didattica e dal trasporto con cui ottemperava al suo ruolo di maestro comunale. Aveva tutt’altro che disprezzato gli studi teologici, ma le sue grandi passioni, oltre la Chiesa di Cristo, erano l’elevazione della sua gente, nel cui dialetto trovava le tracce di una grande civiltà non del tutto perduta, e la poesia.
    Quella “pojesia”, la poesia vernacola, nella quale era abilissimo costruttore di versi limatissimi, di atmosfere vive, di sensazioni che ancora oggi, rileggendo la sua grafia sui suoi sbiaditissimi manoscritti, ti riporta a scene di vita incredibilmente attuali. Quelle “pojesie” che dovrebbero essere in tutto 45 in vernacolo e 12 in Italiano, secondo la ricostruzione fatta da Mimì Carbone e ripresa da don Antionino Licastro in un prezioso opuscolo pubblicato a New Haven (Connecticut U.S.A.) nel 1987, ma che in effetti saranno state sicuramente molto più numerose stando a quanto lo stesso autore proclama apertamente ("…Scriviu di pojesii cchiù di ‘nu tomu”).

Eppuru, st’annu passa affrittu,affrittu!
Passa senza la solita allegria:
Passa silenziusu e zittu,zittu,
Perchì non c’esti nudha pojesia.
Quandu nci su disturbi e nci su guai,
L’estru non veni a lu Pojeta mai.

E chi po’ diri li notti passati
Senza chiudiri l’occhi nu mumentu?
Li longhi jorna di la carda ‘stati
Cu chista sorta di presentimentu?
Li spasimi di nfernu e li duluri
Apprezzari li poti lu Signuri.

E comu chistu se non fussi nenti,
O si trattassi di cosa di nchiastru,
nci cattaru malati li parenti,
catta ammalatu poi lu stessu Mastru:
e nudha serva mu li servi, nudha!
Dhà se voi agghi, pigghiati cipudha!

Cu grida di la panza e cu di l’anchi!
E cu senti doluri a lu filettu;
Cu si lamenta di li vrazzi stanchi,
E cui di li spitati ntra lu pettu.
A bonicunti ntra chidhu spitali
Si senti nu mungiju generali!
                                        (“Senza Pojesia”)

   
   In queste sestine, probabilmente tra le meno lette e conosciute, c’è tutta la cifra dell’arte poetica di Bidhu: la sintesi commovente tra gioia e dolore, tra sacro e civile, tra pubblico e privato, ricchezza e povertà; la genuinità della scrittura nella quale non trovi mai una traduzione dialettale dall’italiano, che è l’antitesi dell’ arte vernacola; la cura spontanea del ritmo e della prosodia che rimanda a una conoscenza consumata dei classici latini e soprattutto greci che diventa profonda conoscenza della cultura dialettale non solo a livello linguistico, ma anche a livello di eredità culturale con il suo patrimonio di locuzioni, modi di dire, detti e motti, testimoni di saggezza antica e sommersa.
    C’è anche il “mestiere” di chi vive il dialetto come prima lingua materna e lo padroneggia in maniera assoluta per descrivere gli orrori e la povertà dei nostri paesi alla fine dell’Ottocento, come testimonia la sua amara e commossa descrizione dell’ammalata nell'omonima ecloga:

Di ccà a setti strangalati
ntra na casa scura,scura,
cu li mura mpumicati,
cu jhaccazzi ntra li mura,
supra pagghia mpantanata
c'è na povera malata.

E la nigra sua cammisa
nci stavi a manca e a destra,
e supra d'idha teni stisa
na salarda di jinestra.
Du sò lettu chisti su
li sò rrobbi e nenti cchiù.

Ntra dha facci di cucchiara
sulu l'occhi ndavi vivi;
chist'è signu ca dha mara
voli ancora pemmu vivi.
Voli! ma non avi nenti
pemmu menti tra li denti.

   Come può il poeta, l’artista, il sacerdote, l’uomo dell’Aspromonte cantare se le cetre sono appese alle fronde delle faggete e delle querce che svettano sui fianchi di questa terra amara quasi a coprire pietosamente la povertà endemica che si si taglia col coltello con l’arrivo dei Piemontesi, ma anche prima e soprattutto dopo? In uno dei suoi sonetti ( “Sonetto I” da lui battezzato) , Biju ci dà forse la più eloquente testimonianza della sua angoscia sociale alla vista di quanta quanta miseria nera attanaglia la sua gente attraverso le annate di ulive, castagne, orti ammalorati dall’umidità e dagli insetti voraci. E lui si sente uno di loro, quasi in un transfert poetico dentro il quale lo stomaco vuoto del poeta  sintetizza quelli ancora più vuoti di vecchi, donne e bambini:

Cumandami , se voi, supr’atru oggettu
Ma non mi diri pemmu scrivu nenti,
Tu sai c’a la mia testa li talenti
Non vorzaru mu fannu mai rigettu.

Ed ora,Censu coriu,speciarmenti
Chi sentu tanta fami ‘ntra lu pettu,
Se sapissi mu scrivu nu sonettu,
Lu farria pe’ cummoviri la genti.

Se la panza non è bona ‘mbarrata,
Ammortizzati li talenti stannu,
Comu la serpi supa la jelata.

Sulu a na cosa li me’ sensi vannu,
Vaju dicendu tutta la jornata:
Comu si stuta la fami d’aguannu?

     Non si è scritto molto di Biju, ma in quel poco che i suoi paesani con amore gli hanno dedicato,spesso a loro spese, brilla sempre in primo piano la figura del pastore di Roghudi che dall’altro versante della stessa montagna si affaccia sul versante tirrenico, proprio su Pedavoli e Paracorio ( Villaggi oggi riuniti nella cittadina di Delianuova)  in occasione della grande festa cittadina che richiamava gente e pastori da ogni dove, la Festa di li jhuri. Il suo sgomento dinanzi a tanta bellezza, a tanti suoni, colori, profumi di cibo e di fiori è solo pari alla sua estrema miseria che fino a quel momento lo ha oppresso in una condizione quasi animalesca , che si squarcia per un attimo per fargli vedere il paradiso. Ed è un capolavoro recitato per anni a memoria nelle case di Delianuova!
 

                                             LU RIGHUDISI A LA FESTA DI LI JHURI


A chistu nostru bejiu paisi
vinni nu toju,nu Righudisi;
cu lu sò paru di calandreji,
cu li sò rrobbi tutti di peji,
cu la sò facci nigara  tutta
parìa daveru chiju jà ssutta:

Iju chi vitti, comu si dici
l'urzi e li lupi quandu si fici;
iju chi tutti passau li festi
cu li nimali ntra li foresti;
jiu chi sulu sapìa di cani,
di porci e pecuri, di voschi e tani

di supra a Grecu quandu spuntau,
lu Righudisi guardau, guardau:
vitti sfilari cu passu tardu
la prucessioni cu lu stendardu;
vitti lu populu pè ccà e pè jià;
" E quantu pecura - disse - nc'è ccà !"

Ma quandu vitti li vergineji,
beji di facci, vestuti beji,
"Sci! chi dedhizza ! - gridau - Sci! Sci!
O Madonneji ! Santi Marì!"
E mentri chista cosa dicia,
lu righudisi ciangia, ciangia.

Ma la Madonna ntra jiu sprenduri,
ntra jia foresta di rosi e jhuri
cu jiu Bambinu di paradisu,
nescìu di cresia all'improvvisu.
Tutti mmagaru! Lu Righudisi
parzi sparatu di pajia ngrisi!

Catti jià nterra a nginocchiuni,
schicciau di manu lu sò vastuni
e cu du pugna comu marteji
si fici russa tutta la peji:
se ji costati non si spezzaru
lavìa e ndaviri certu d'azzaru.

Eccu la banda ! Ncumincia già
cu lu tamburu : ta-ra-ta-brà.
Dopu nu rullu cu majestrìa
sonau nu pezzu di la Lucìa.
Lu Righudisi gridau di botta :
"Sonanu bonu chisti frischiotta!"

Vitti volari poi lu palluni
e lu guardau comu minchiuni:
e mentri all'aria sempri s'arzava
jiu cu l'occhi lu cudiava,
e dissi poi quandu squagghiau :
Lu pagghiarejiu si la volau !"

Nu virguluni tuttu arraggiatu
schianau mu tocca lu nivolatu;
e doppu 'nsaccu di surfalora
tutti a na botta schicciaru fora.
Bampava l'aria di ccà e pè jià;
si sentìa sulu : pra - pra - pra - pra.

Si ntisi 'ncorpu poi di mortaru:
urtimu corpu,urtimu sparu;
s'arzau a menz'aria : comu calava
pè setti voti si spronacava.
Poi fu silenziu...finiu la festa.
Ma lu pajiecu jià ancora resta!

L'appressu jornu quandu jhaccau
l'arba a lu celu, jiu s'arzau;
cu rrandi noja, cu ppocondria
di li foresti pigghiau la via.
Comu nu stupitu, comu nu pazzu
tornau a li jhischi di lu sò jazzu.

Appressu, appressu la mandria jia,
ma poi di sira no la cogghia :
nci la sbrigavanu sempri li lupi;
restava àfanta ntra li darrupi.
Sicchè a lu tojiu la nostra festa
nci fici perdiri pecuri e testa.



     Un uomo dedito a Dio, all’insegnamento e all’elevazione della sua gente non poteva non vivere male i limiti angusti imposti dai tempi e dalla mentalità della  gente borghese alla sua opera di maestro e di poeta. Erano  relativamente lontani da venire  i tempi di Zanotti Bianco, ma Antonino Frisina li precorreva spontaneamente sebbene , per la sua condizione sacerdotale, non potesse esprimere apertamente tutta la propria ribellione allo status quo sotto il quale venivano  oppressi i poveri, i tanti servi della gleba che vivevano e morivano di stenti nel silenzio e nell'indifferenza totale delle classi dominanti.
  E il maestro era tutto e doveva intendersi di tutto: 


LU MAIESTRU

Li mè sensi l'aiu strutti
ntra la scienza fici cajiu
di dottrina passu a tutti
cu la chica e cu lu bajiu.
Si, sugn'eu nu precetturi,
nu maiestru a tri custuri!


Se di pani di Maiorca
jincu bona la mè trippa
mi la ballu poi na porca
a la vucca cu la pippa
ed ogn'atru mu si sedi
ch'eu la ballu a li so pedi.

Se mi mentu poi a cantari
cantu tantu graziusu
chi nessunu pò nzertari
di lu sonu lu pertusu.
Dinnu tutti : " Figghia, figghia,
a lu pirutu assimigghia".

Ndaiu scrittu a la memoria
Vecchiu e Novu Testamentu,
d'ogni fimmana la storia,
lu trattari d'ogni gentu.
Sacciu jeu cu fu Simicu,
Micu-panza,  Micu-micu.

Marantona, Lifacà,
Scutu, Andredhi e Carchicè,
undi sunnu cu lu sa?
Und'è Leni e Posu und'è?
Eh! La vera giografia
è partita sulu mia.

E distinguiri cu sapi
li piseji di la sujia,
li lattuchi di li rapi,
di lu ficu la cipujia,
di lu crudu scartagnolu
la cucuzza e lu citrolu?

Nhe! lu ciucciu quandu lascia
di mangiari a la sipala?
Quandu veni la brambascia?
Quandu crepa la cicala?
Quandu l'arburu si spogghia
di lu fruttu e di la fogghia?

Lu gna-gnau pecchì si jicca
quandu l'aria zijhaliìa?
Lu limbò pecchì va picca?
E pecchì lu tauru azzija?
Lu sumeri pecchì arragghia
se nci manca frenu e pagghia?

Ccà, ntra chistu cocculuni,
ogni lingua avi rigettu.
Sacciu chjia di muntuni,
sacciu chjia di crapettu,
sacciu chija di l'agnejiu,
sacciu chjia di porceju!

Si li sensi l'aju strutti
ntra la scenza fici cajiu,
di dottrina passu a tutti
cu la chica e cu lu baiu.
Si, sugn'eu nu precetturi,
nu majestru a tri custuri!

Ccà, bambocci, avanti,avanti,
mò vi mparu mu lejiti;
ntra na botta e non c'è santi
fazzu tutti mu sapiti!
Si, lu vostru precetturi
vi fa lejiri a vapuri.

Sarzizzu,Pracheriu,Masciarejia,
Cantuni, Brancaleuni...
Si, lu nostru precetturi
ndi fa lejiri a vapuri.

     Ma la vena poetica nei grandi è anche umorismo, ironia, mai sarcasmo gratuito. E Antonino Frisina rende sempre e comunque a Biju il suo tributo, come già aveva fatto con se stesso il grande abate Conìa persino nello stesso seminario oppidese in cui entrambi avevano mosso i loro passi, il primo come docente, il secondo come allievo. Il maestro è maestro di abbiccì, ma anche di vita e non può rinunciare a insegnare tutto quanto conosce, persino le cose più sconvenienti e senza remore. E se esplodono l’umorismo e il sorriso, ben vengano:

Un’avvertenza al maestro D.Amato Licastro
1
L’atru jornu lu mastru D. Amatu,
Mastru chi ndavi pipi e ndavi sali,
A li ragazzi soi nci avia insegnatu,
Cu precisioni tutti li vocali:
Ma poi quandu si vinni a lu Bi Ba
Non dimostrau la stessa abilità.
2
E di fatti chi cosa nci scriviu?
Nci scrissi sulu Ba, nci srissi Re:
E cu chisti dui sillabi cridiu
Di aviri terminata l’abbezzè.
Cu sapi veramenti lu Bi-Ba
Trova cumpricazioni ‘nquantità.
3
Mu si dassanu l’atri cunsananti,
Una fra tutti non si po’ dassari.
L’omu la faci darretu e di avanti,
E si senti ogni vota arricriari;
E tutti quanti dha presenti su 

Hjaccanu a risi alla sillaba Pu.
4
Amatu, quandu ti torcìu dha dogghia
E mungiavi cu l’occhi ‘nvelati,
Avogghia lu Dutturi, avogghia, avogghia
Pemmu t’inchìu la panza di babbati!
Tu lu duluri non sentisti chiù,
quandu cacciasti la sillaba Pu.
5
E non ti accorgi ca ognunu si stucca
Lu Pu mu sfratti di lu sillabariu?
L’omu la caccia sempi di la vucca,
Lu caccia sempi di lu tafanariu:
Avi dui buchi. Ora venivi tu
Pemmu distruggi la sillaba Pu?
6
Chiutostu quandu ‘nsigni lu Bi-Ba
Dopu lu Do,lu Fa,lu Ge,lu Mi,
Dopu lu Ne, lu Ro, lu Su, lu Ga,
dopu lu Cu, lu Te,lu Vo, lu Zi.
E di supra e di sutta ‘nsegna tu 

Lu Pu, lu Pu, lu Pu, lu Pu, lu Pu!