mercoledì 18 luglio 2018

LE PROTESTE DELL’ABATE MARTINO



              di Michele Scozzarra

    Fa ancora notizia persino oggi, e fa nascere inevitabilmente polemiche, un sacerdote che si invischia nella vita politica in modo diretto e senza peli sulla lingua. Provocava un terremoto, perlomeno tra gli addetti ai lavori e gli alfabetizzati, un sacerdote, l’abate Antonio Martino, di cui quest’anno ricorre il secondo centenario della nascita, che a metà Ottocento sfidava apertamente lo status quo e la quiete stagnante nell’ordine sociale di questi paesi rimproverando apertamente ai responsabili della cosa pubblica - e ai più alti livelli – i mali che affliggevano il popolo. E se il prete in questione, oltre a conoscere l’italiano e il Latino, era esperto di Storia e di Geografia e di Economia e sapeva valutare quanti soprusi e violenze si commettessero dal Potere politico ai danni della povera gente, era inevitabile che qualcuno, forse più di uno, diffondesse la voce malsana che egli impersonasse addirittura lo spirito del Male. Insomma bisognava colpirlo alla schiena e al cuore, ma soprattutto alla bocca, a quella sua bocca sprovvista del sia pur piccolissimo pelo sulla lingua, e farlo tacere: le sue contumelie, per quanto argute, lievi e pungenti fossero, per quanto non di rado suscitassero il riso e venissero imparate a memoria e tramandate di padre in figlio, martellavano l’ordine costituito, scardinavano il potere come un punteruolo. Erano oltremodo pericolose, dunque da coprire e disinnescare a ogni costo…
     Un quadro, questo, un personaggio che non poteva non appassionare Michele Scozzarra , non solo come concittadino galatrese, ma soprattutto per la sua humanitas così dirompente, tanto da indurre questo fine studioso delle memorie patrie e della nostra terra a rivisitare più volte , studiare, direi vivisezionare , le composizioni in versi dell’abate Martino non solo e non tanto con gli strumenti del pubblicista, ma soprattutto con la curiosità di chi vuole indagare come e perché già due secoli fa la Calabria più chiusa e acerba, Galatro come metafora della più angusta tra le angustie di un territorio abbandonato a se stesso, sia riuscita a partorire uno spirito libero in grado con una sola delle sue poesie di sintetizzare mille trattati di storia e di politica di regime.
    E Michele Scozzarra ha studiato, ripreso spesso con profondissima competenza le pagine di questo tanto originale quanto trascurato scrittore calabrese e oggi le ha radunate in un essenziale  e prezioso corpus definito ( “Abate Antonio Martino” – Edizioni d’Autore – giugno 2018) che segna sicuramente una pietra miliare per la conoscenza non solo della vicenda umana, spirituale ed ecclesiale di questo grande, ma anche della sua opera certamente scarna, eppure tanto eloquente e pregna di significati.
    L’analisi di Michele Scozzarra è affettuosa, ma al contempo ricca di rigore e di chiarezza, come tutti i suoi scritti peraltro, e sono ormai tantissimi e dei quali mi piace qui riportare uno dei più significativi. Ne emerge una figura che vale la pena conoscere e, se si è convinti di averla già conosciuta, di approfondire come merita per riscoprire davvero una tra le tantissime ricchezze inedite della nostra terra.(Bruno Demasi)

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     Questo strano prete (che ho avuto modo di scoprire in maniera sempre diversa nel corso degli anni e che, purtroppo amaramente, bisogna riconoscere che appare sempre più sconosciuto alle nuove generazioni, anche del nostro “natìo borgo”), ha avuto la capacità di “calarsi” talmente dentro la realtà culturale ed umana dei nostri paesi, da riuscire quasi a trasfigurare la realtà stessa, rendendo eccezionale quello che altro non è (non so se scrivere: “non era”) se non il normale quotidiano scorrere della vita dei nostri paesi.
    L’abate Martino orientò la sua attività in diverse direzioni, non esclusa quella strettamente politica della Carboneria di cui era un affiliato (impegnato a combattere, tra l’altro, anche la politica Vaticana); ma non ha trascurato, in gioventù, di punzecchiare le donne, non si è tirato indietro nell’impegno politico e quando, come si suoi dire, ha capito che ormai “si cogghìu ‘i carti ‘o pettu…”, si è rivolto a Dio e ne è venuta fuori, non solo a mio avviso, la sua produzione più matura, oltre che più intima e personale.
   Accusato di avere cospirato contro il regime borbonico, viene più volte arrestato e più volte evade: si dice che si travestiva e si nascondeva alla stregua dei più spericolati banditi, al punto che i suoi avversari avevano accreditato la leggenda chi egli fosse la reincarnazione del diavolo
   Incredibile ma vero (e qui, veramente, si vede in Martino uno “spirito libero” incapace di moderare i termini, dove la libertà nel suo scrivere, effettivamente, non conosce nessun tipo di limitazione) è l’episodio relativo alla prolungata anticamera a cui è stato costretto, in attesa di essere ricevuto in udienza dal Vescovo di Messina, il quale si intratteneva con l’Arciprete di Capizzi.
   L’Abate Martino scocciato per la lunga attesa, pregò il segretario di consegnare un biglietto al Vescovo, e se ne andò. E… a chi poteva mai venire in mente di rivolgersi al proprio Vescovo con questi versi? Nel biglietto c’era scritto:
L’Accipreviti di Capizzi…
caccia “ca” ca resta pizzi,
caccia “pi” ca resta cazzi!…
E’ previti di pizzi e cazzi!


  Certamente, a parte questi versi, non si può immaginare un Martino capace di moderare i termini, Martino è stato grande anche per questo: il suo grande bisogno di libertà, non ammetteva certamente alcuna limitazione di sorta, soprattutto nei suo versi.
   Forse questo era un suo modo di sfogarsi: può darsi che, in questa grande libertà di espressione cercava di distrarsi dai mali che vedeva intorno: “…lu mundu prima t’alletta e poi si mustra ‘ngratu!…“, così soleva ripetere il Martino. Forse anche per questo cercava di distrarsi con composizioni “pungenti”, talvolta oltre ogni accettabile misura.
   L’abate Martino è stato precettore nella casa del Marchese Nunziante di San Ferdinando; qui, vivendo in casa con loro, si è reso conto che l’autorità non era del Marchese, ma della moglie che, come si suol dire, aveva messo sotto il marito e, da questa situazione, ne trae lo spunto per scrivere “la gonnella”, cioè una “pesante” satira sui mariti che si lasciano comandare dalle mogli: 

Viju ‘na nova moda, assai avanzata,
e nuju mi sa diri la raggiuni.
La saja ‘a tempi nostri è assai prezzata:
si cangia cu rifusu a lu cazuni.

La donna, chi da Ddeu fu destinata
serva di Adamu, diventau patruni,
e ll’omu, diventatu na patata,
‘nci sta di sutta comu nu cugghiuni.

L’anticu si sustinni cu riguri
cercandu la mugghieri servicedha,
mo’ viju ca la donna fa d’atturi:
la mugghieri mu pista lu martedhu.

E’ veru ca ragazzu, lu Signuri,
a Cana si la misi la gunnedha,
ma grandi cchiù non fici sti figuri:
perciò risuscitau, di poi, in pannedha.

Mo’ oji nudhu leji la Scrittura,
mu sapi quantu Cristu seppi fari.
La Genesi, o cazzuni, vi assicura
ca notti e jornu supra aviti a stari.

Mo’ l’omu è donna, è vili servitura,
e pe’ cchiù pena sua non po’ parlari:
si parla abbaja, e poi jestima l’ura,
quandu li cauzi soi vozzi cangiari.

Fu la cazzuni sempri valutatu
ma mo’ no vali cchiù di na cinquina:
tandu era nettu, e mo’ chi fu pisciatu,
puzza di stoccu vecchiu e di tonnina.

E l’omu chi si misi, sciaguratu,
la saja, la suttana e suttanina
di la mugghieri veni dominatu,
stenduta comu viscu o ciavurrina.

E’ chistu l’omu odiernu ‘ncivilutu,
chi vanta libertà e filantropia?
Oh cauzi! Oh saja! Oh tempu!
Omu avvilutu!…
Suggettu ‘a na pisciazza… Uh porcaria!…


     Questo era il Martino che, in gioventù, si divertiva a indirizzare i suoi versi in una realtà “leggera e profana”.  
    Solamente in età avanzata il Martino confessa che tutte le speranze e le illusioni inseguite in giovinezza, spesso si erano trasformate in delusioni: il suo bisogno interiore non è stato appagato né dalle satire, tanto meno dalle poesie politiche; anzi proprio mentre il Martino afferma di essere pentito di tutto quello che aveva scritto, compone una delle sue poesie più belle, “la Confessione del Poeta pentito”: 


Venni, vidi, e non vinsi, anzi fui vinto
da tre nemici, e prigionier fui fatto,
quindi al collo, ne’ lombi, ai pie’ fui cinto
da triplice catena a duro patto.

Mille e più volte dal misero
a frangerla; ma che? quand’era atto
or da lusinghe, or da minacce avvinto
fui da quegli empi, e me da me distratto.

Ma se l’ardir, la forza, il pentimento,
Dio, che può tutto, quando vuol m’appresta,
 trionferò di mille inferni, e cento.

domenica 8 luglio 2018

VECCHIO CINEMA "ASPROMONTE"


 di Tonino Polistena

     Ecco cosa succede quando un giornalista si abbandona ai ricordi e decide di narrare! Succede 
che i piani della scrittura e della cronaca si intersecano dentro il filtro del ricordo, dando vita a un racconto come questo, inedito per contenuti, stile di comunicazione, ironia affettuosa, originalità. Ma succede anche che l"Aspromonte", che a viva forza ho voluto inserire nel titolo di questo post, acquista mediante queste narrazioni una luce diversa e meno stucchevole del solito: non solo frontiera della geografia e della storia del Sud, non solo palcoscenico retorico e folclorico di briganti, filibustieri di mestiere e vittime per vocazione, ma anche luogo di civiltà nel quale anche una sala cinematografica da retroguardia poteva aprire un ponte con il mondo. Un tramite costruito dai sogni di varie generazioni di ragazzi e di giovani subito falcidiate dall'emigrazione. L'Autore, che ha vissuto e continua a vivere tutto ciò sulla propria pelle, non poteva non trarne un piccolo capolavoro narrativo del quale non si può che ringraziarlo. Ammiràti. (Bruno Demasi)
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    Si, mio padre ha fatto anche il cinemotagrafaro, il suo primo lavoro subito dopo il rientro dalla guerra che, a dire il vero, tranne una breve permanenza al confine tra Grecia ed Albania,lo aveva visto girovagare per le caserme di Calabria al riparo da grandi e piccoli rischi…Gestiva un cinema nato negli anni Quaranta grazie a nonna Fortunata e quando ancora la tv era in viaggio. Cinema di cui continuò a occuparsi fino ai primi degli anni Sessanta, quando, con la scusa che la televisione era entrata in ogni casa e la gente al cinema non ci andava più, lo diede in gestione a Pierluigi Bonzangni soprannominato “ il Bolognese “, del quale ho un ricordo vago e sfocato, ma che mi appariva come un signore distinto e di bell´aspetto . Una persona perbene, insomma.
    Nonna Fortunata era nativa di Bagnara ed era arrivata ad Oppido per sposare Antonino Polistena,dal quale aveva avuto cinque figli. Quella del cinema era una fissa che non l´abbandonava. Da buona imprenditrice aveva la vista lunga e vedeva nella settima arte anche una fonte di denaro. E cosí, insieme a due soci, nei locali dove in un passato non troppo lontano aveva visto la luce un primo cinematografo, poi rimasto in abbandono, diede vita al cinema “Italia”. Si partí con un proiettore per il cinema muto ereditato da una sala degli anni Trenta e lo si diede per la modifica ad un tal Liberato, tecnico napoletano, che si dedicó alla modifica con pezzi di ricambio. Rientrata da Napoli come nuova, la macchina diede bella prova di sè un mese dopo con una proiezione pubblica nella piazza che si apriva quasi a ridosso del nuovo cinema..

     Migliaia di persone accorsero attirate dalla grande novitá ed il successo di quella prima pubblica proiezione lasciava ben sperare sul futuro della nuova
sala cinematografica. Non la pensava però cosí il vescovo dell´epoca, forse geloso dei proseliti che il cinema andava mietendo o, molto probabilmente, diffidando come molta parte della chiesa di allora, dei progressi della tecnologia, cominció a mettere il bastone tra le ruote e ad osteggiare l´iniziativa. Si cominció a diffondere la voce che il male era arrivato in cittá e attraverso le prediche, durante messe e pontificali, si disse che il cinema era peggio di una bomba atomica, anzi “ una bomba di gas asfissiante opera di Satana”. Con l´influenza che la chiesa aveva allora ( ma forse anche ora) sulla gente e´ facile immaginare lo scompiglio che questa sorta di anatema creó sui possibili futuri spettatori ma, soprattutto, sui tre soci che alla luce della pubblica proiezione giá intravedevano un radioso avvenire. La scomunica del vescovo ebbe i suoi effetti, almeno parzialmente. Riuscí a far saltare la societá nel senso che due dei soci, ritirandosi in buon ordine, lasciarono solo mio padre il quale, spronato da nonna Fortunata che non voleva rinunciare agli investimenti e di conseguenza, darla vinta al vescovo, decise di continuare da solo l´avventura. 

    Erano i cinema di paese, dove la domenica si andava a vedere Maciste, Ercole o Franchi e Ingrassia; dove, bambini, si entrava alla due e si usciva alla sette di sera, dopo aver visto il film per tre volte di seguito, magari seduti per terra proprio sotto il grande telo bianco dove veniva proiettata la pellicola perche il posti a sedere erano esauriti.. Naso all´insú e cosí vicini da essere quasi parte integrante delle scene e dello schermo.” Allujuti “ da quelle continue battaglie che I soldati della Roma imperiale ingaggiavano con i barbari con gli elmi cornuti e commossi dai pianti di neonati persi dalle mamme che i registi dell´epoca strategicamente posizionavano piangenti, per terra, al centro della strada, tra cavalli imbizzarriti e incendi distruttivi, per colpire al cuore degli spettatori.
    Era il cinema dei fischi e dello sbattere i sedili quando la pellicola si bloccava perché nel proiettore i carboncini si erano seccati e bisognava inumidirli. E quando la pellicola si bloccava sembrava che la gente non aspettasse altro, che non fosse lì per vedere il film, ma che attendesse il fatidico momento per dare inizio al baccano e farsi sentire dall´operatore in quel momento forse distratto o assente. Partiva una saccavarda di fischi ed uno sbattimento di sedie da risvegliare i sonnolenti anziani seduti in piazzetta. Ve le ricordate le vecchie sedie di legno dei cinema, quelle che si piegavano automaticamente appena vi alzavate? Ecco provate ad immaginare trenta o quaranta figli di buona donna che simultaneamente le fanno sbattere con forza verso lo schienale. E questo una decina di volte nello spazio di un minuto, quanto mediamente durava il blocco. Contemporaneamente si alzava a squarciagola l’urlo: “quadro, quadro!!!”.” Figli di puttana, che casino che fanno”, sussurrava qualche anziano in fondo alla sala sorridendo al suo vicino. 

    Era veramente un finimondo.
  Era il cinema in cui, se dovevi cercare qualcuno e pensavi fosse dentro, dopo aver avuto l´approvazione del gestore di turno aprivi la porta e gridavi un nome o un cognome, alla faccia di tutto e di tutti. Se quello che chiamavi c´era, sentivi un “ Cca su, chi cazzu voi” ? Se la risposta non arrivava, il chiamante richiudeva la porta e se ne tornava da dove era venuto. Una sera sul più bello di una proiezione si apre la porta entra un tizio che urla: “Cammareri ?!?!“, cercando probabilmente un amico con un cognome che in italiano significa cameriere. E dall’altra parte della sala, immediata e più veloce della luce, la risposta: “Champagne “, scatenando le risate dei quattro che erano in sala.
    Questo poteva accadere e molto altro, nel cinema gestito poi da Mastru Vicenzo che aveva ereditato l’affitto dal Bolognese, ma non era un vero e proprio cinematografaro, era un trafficone e un vecchio porco. Trasformò il cinema per tutti, in un cinema a luci rosse, che in quel periodo era diventata la caratteristica dei piccoli cinema di provincia e non solo, che per sopravvivere proiettavano continuamente e solo film porno. Non firmava contratti con le case cinematografiche, non acquistava film di prima o seconda visione, che comprendevano altri otto o dieci film di ultima visione, meglio conosciuti come “mattoni “, da proiettare durante la settimana, prassi normale nella gestione di un cinema. Niente di tutto questo. Era una specie di corriere che portava le “pizze” da un cinema all’altro. Viaggiava con una vecchia fiat 124, sempre con lo stesso abito liso e con le camicie consunte. Età indefinita, direi tra i cinquanta ed i sessanta, capelli ricci e bianchi, sempre sporchi e spettinati. Viso emaciato e rugoso, grande bocca e pochi denti, Mastru Vicenzu negli anni aveva conosciuto diversi proprietari di cinema per via dei suoi traffici ed ora, grazie alle vecchie amicizie, riusciva a tenere in pausa, per una mezza giornata, un film, magari anche di prima visione, che doveva portare da un cinema all´altro e lo proiettava ad Oppido.

    Ad aiutare il " titolare " c´era Mastro Chele , che di lavoro faceva l´imbianchino e che nei pomeriggi e nelle sere d´inverno quando smontava dal lavoro, fungeva da operatore. Aveva una cinquantina d´anni portati male, pochi capelli e basette lunghe in un viso rotondo e colorito, voce tendente al falsetto, era sposato con una donna che di tanto in tanto passava dal cinema ed aspettava il marito fino alla fine dell´ultima proiezione. Viso lungo con rughe pronunciate ai lati della minuscola bocca e degli occhi scuri, fronte alta tagliata da una frangetta di capelli nero corvino che andavano a cadere ai lati delle spalle e fino a coprire dei seni mancanti la signora vestiva in maniera bizzarra e appariscente ,sortendo un’immagine che, se vista al buio, poteva diventare angosciante.
    Quella sera di novembre si proiettava un film di terrore, un horror infestato da spiriti maligni, mostri e morti viventi. In galleria c’era un solo spettatore pagante, mancavano infatti anche gli spettatori a cridenza. Facile immaginare la tensione, la paura e le angosce del povero sventurato alle prese con vampiri e zombi ed in totale solitudine. Ed é facile immaginare, a questo punto, i brividi di terrore che attraversarono il suo corpo quando, all’improvviso, la porta della galleria si aprì e apparve una figura spettrale e vestita di bianco. Era la moglie di mastro Chele, che quella sera aveva deciso di attendere il marito salendo in galleria. Alla vista di quello che per lui altro non era che il diavolo, il povero spettatore non ci pensa due volte: si alza, scavalca la balconata a protezione della galleria e si lancia urlando di sotto.. Un volo di almeno due metri e mezzo tra gli allibiti spettatori della platea ,e poi,  quasi incolume, di corsa verso l’uscita.

giovedì 5 luglio 2018

UN AMORE PIZZICATO

 di Giuseppe Vivace

    Se non fosse riduttivo, e per certi versi stucchevole, fare confronti e parallelismi eruditi , dopo la lettura di questo libro – che è immediata e ristoratrice come un abbondante boccale di buona birra bevuto d’un fiato – la mente correrebbe al linguaggio di Raymond Carver e alla parte migliore della scrittura minimalista U.S.A. , ma anche al Pavese de “La bella estate” o forse anche a una pagina giornalistica senza aggettivi, nella quale attraverso un linguaggio essenziale e scarno fino allo sfinimento , affiorano paure, dubbi, domande e soprattutto tante storie che si intersecano in un tessuto narrativo monolitico. Intensissimo.
    Un nuovo minimalismo volutamente diverso da quello accademico e patinato che ha imperversato per decenni nelle librerie d’Oltre Atlantico e poi in quelle europee e persino in quelle italiche, un modo di scrivere e di pensare fortemente radicato nella tradizione letteraria italiana e in quella “Geografia delle radici” che magari fa ritrovare la Calabria più vera sui navigli milanesi , dove l’Autore reggino oggi vive, perfettamente inserito nel sano tessuto produttivo della città,  o nelle rote di tarantella improvvisate in Piazza della Borsa o in altri luoghi carismatici  di Milano.
      La Milano delle feste clandestine e delle esistenze provvisorie e libere che cercano disperatamente di riscattare un tempo di povertà sociale dalla cappa plumbea del perbenismo da un lato e della precarietà della vita dall’altro. Quelle feste clandestine che dalla musica live , dal suo tessuto etnico, dalle danze improvvisate che ruotano intorno alla Pizzica (l’antonomasia della taranta e delle danze locali del Sud) ricavano metodo ed energie rinnovabili per continuare a vivere la dimensione delle proprie radici e del proprio passato in un presente e in un futuro poco probabili.
    Da qui forse, da questa dimensione descrittiva, il titolo di questo romanzo, che quella grande e finissima ostetrica che è la casa editrice “La città del sole” di RC ha curato con amore per la stampa, ma anche dal contenuto narrativo che vede poi i protagonisti, tutti “pizzicati”, catturati, presi di sorpresa, costretti a tornare in Calabria per una storia brevissima, tumultuosa, illuminante.
    In fondo il fenomeno ndrangheta e i suoi meccanismi e tutto ciò che ruota attorno ad essi non hanno bisogno di molte parole e di molte illustrazioni per essere compresi fino in fondo. E Giuseppe Vivace ce lo dimostra in pochissime battute, tutte al presente, senza concitazioni letterarie, senza metafore e giri di parole. Quasi un riassunto infastidito e sofferto di una vicenda di una malattia storica e sociale che ci sporca, che non fa parte del DNA di questa terra, ma che ne ha preso possesso ormai come una famiglia pervasiva di zecche della peggiore specie.

   E lo comprendi più con una di queste poche pagine che attraverso mille tomi di sociologismo e di giornalismo di maniera, il più delle volte solo  servizievoli verso la politica al potere e di potere... (Bruno Demasi)
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    ... Pepe era arrivato alle 22,00. Aveva posato il suo carico di musica e vestiario in un angolo e aveva iniziato a mettere ordine nei piani della serata.
    Pepe è una di quelle persone che ispira positività, appena lo vedi pensi “di questo mi posso fidare”.
   Ha vissuto un adolescenza senza madre, morta di cancro quando lui era ancora bambino ed è cresciuto con il padre e la nonna. Ha studiato lettere all’Università Statale e adesso fa l’insegnante di sostegno in una scuola media. Viveva con suo padre che fa il pensionato delle poste. Pepe ha avuto un amore per tanti anni, Barbara, sua collega di scuola.
   Sono stati fidanzati quasi 6 anni. Lui era attaccatissimo e dopo la rottura di quella storia, che sembrava destinata a non finire mai, lei si era trasferita in Calabria dove adesso viveva con suo marito e un figlio piccolo. Non si sentono né si vedono più da allora e anche se adesso tutto è passato, la ferita della separazione, in Pepe, non si è mai rimarginata.
   Lui che aveva immaginato la sua vita insieme a lei è rimasto toccato nel vivo da questa amara conclusione.
   Da allora nessuna storia importante lo aveva preso e la sua passione si era riversata di fatto sulle danze e sui balli popolari, dove adesso c’era un pezzo importante della sua vita.
   Lara viveva nel pavese con i suoi tre gatti. Aveva viaggiato molto; l’India, in particolare, l’aveva stregata. Là aveva trovato il suo amore, un ragazzo che era con lei nel gruppo di viaggiatori e da allora era nata una bella storia che soffriva però la distanza visto che il suo compagno era a Londra dove insegnava matematica all’Università.
   Da quando si erano conosciuti con Pepe, un paio di anni fa, a Bergamo in una delle prime feste, dava una mano a organizzare le serate ed era lei, Lara, che apriva le danze quasi sempre.
   In questa sera che prende oramai il decollo, Pepe tira fuori una cartina e il tabacco per farsi una sottile sigaretta. Mentre la accende e ne tira una prima boccata concentrandosi lentamente sul sapore del tabacco, una smorfia di amaro si disegna sul suo volto ed il fumo respirato aleggia nella spazio vicino tracciando strane forme che si disperdono da lì a poco nell’aria.
   Alterna le tirate di sigaretta con un sorso di latte freddo che beve in una tazza di alluminio, sua immancabile compagna di feste. Il suo latte “fa strano” rispetto alle altre tante bottiglie di vino messe sul tavolino che serviranno a riscaldare questa tiepida serata di Aprile.
   Sul tavolo anche il sacchetto trasparente di tarallucci che Lara prepara sempre con le sue mani... 

   La festa clandestina è fatta di musiche popolari, quelle del Nord Italia che sconfinano nelle Alpi francesi e quelle del Sud Italia, tipicamente le Pizziche, le Tammurriate e le tarantelle Calabresi. A volte queste feste si fanno anche separate per genere musicale, evitando di mischiare il nord con sud.
   A Pepe piaceva però tenere dentro tutto, in fondo la radice popolare di quella musica la caratterizzava indipendentemente dalla provenienza geografica.
   In quel momento suona una danza popolare del nord, una Scottish. È questa una danza meno intima e più giocosa rispetto alla mazurka francese. I movimenti sono scanditi dagli strumenti in modo quasi didascalico ma ci sono tante variazioni. Uno due, uno due, uno due tre e quattro, è il tempo.
   Le coppie aumentano man mano in pista.  Lara balla con Gino, un ragazzo che gira sempre in questi eventi. Lui studia storia e arriva dalla Brianza. Balla molto bene dopo un periodo di iniziazione durato più di un anno.
   I due volteggiano con grazia e leggerezza nella piazza sempre più affollata di gente.
   Angelo sta fumando le sue sigarette e sorseggia un bicchiere di vino; sembra distratto. Guarda tutti senza che il suo volto cambi espressione nei tanti sguardi ricambiati.    Lui è fatto cosi, ha lo sguardo marmoreo, lo ha sempre avuto.
   Innocenti e caldi abbracci chiudono una danza che coinvolge in qualche modo corpo e anima. È un popolo che balla, come direbbe Jovanotti, anche quella sera a Milano.
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   Pepe ha pensato tutta la notte a questa partenza anche lui è convinto che lei sia là. Sa che deve avvicinarsi a quella terra e sente che deve e può fare qualcosa, anche se è molto combattuto. Ha maturato un’idea rispetto al rapimento, che adesso impegna non poco la sua mente.
   Prendono una macchina a noleggio, una station-wagon bianca, che viene caricata con qualche borsa per bagaglio. Si immettono sulla strada verso la Calabria, dentro ci sono tre uomini e tanti pensieri. Il viaggio è silenzioso, non c’è musica, non ci sono parole, solo grande affetto e legame tra persone che condividono un’amicizia forte e tanta preoccupazione. 

    Pepe legge i giornali dei giorni passati che riportano la vicenda ricostruendo la vita e la professione del padre di Lucia e legano inevitabilmente il rapimento alla sua attività. Prova a trovare qualche indizio più preciso. Fanno qualche ipotesi ma non si avventurano più di tanto nella vicenda.
   Pepe ha in testa un suo piano ma lo tiene solo per lui, troppo rischioso condividerlo adesso con qualcuno, persino con i suoi amici più stretti. È una cosa peraltro che farebbe riaffiorare forti e dolorose ferite anche se adesso è questo un aspetto secondario.
   I tre fissano una meta, puntano su Lamezia Terme, dove arrivano che è quasi sera. La meta non è stata scelta a caso, fa parte del piano di Pepe, anche se gli amici non conoscono precisamente il motivo. Trovano un motel vicino alla stazione e contrattano il prezzo: una camera in tre, 80 euro al giorno compresa la colazione. Si sistemano ed escono da li a mezz’ora a mangiare qualcosa. Trovano nei dintorni una pizzeria: “da Rino”. L’insegna è un po’ ingiallita dagli anni, l’ambiente è molto spartano. Solo due tavoli con un po’ di ragazzi. Ordinano tre margherite e tre birre chiare.
   Il proprietario che è anche il piazzaiolo, sembra non badare a questi tre nuovi clienti che entrano in quella serata di una estate qualunque nel suo locale....