di Michele Scozzarra
Fa ancora notizia persino oggi, e fa nascere inevitabilmente polemiche, un sacerdote che si invischia nella vita politica in modo diretto e senza peli sulla lingua. Provocava un terremoto, perlomeno tra gli addetti ai lavori e gli alfabetizzati, un sacerdote, l’abate Antonio Martino, di cui quest’anno ricorre il secondo centenario della nascita, che a metà Ottocento sfidava apertamente lo status quo e la quiete stagnante nell’ordine sociale di questi paesi rimproverando apertamente ai responsabili della cosa pubblica - e ai più alti livelli – i mali che affliggevano il popolo. E se il prete in questione, oltre a conoscere l’italiano e il Latino, era esperto di Storia e di Geografia e di Economia e sapeva valutare quanti soprusi e violenze si commettessero dal Potere politico ai danni della povera gente, era inevitabile che qualcuno, forse più di uno, diffondesse la voce malsana che egli impersonasse addirittura lo spirito del Male. Insomma bisognava colpirlo alla schiena e al cuore, ma soprattutto alla bocca, a quella sua bocca sprovvista del sia pur piccolissimo pelo sulla lingua, e farlo tacere: le sue contumelie, per quanto argute, lievi e pungenti fossero, per quanto non di rado suscitassero il riso e venissero imparate a memoria e tramandate di padre in figlio, martellavano l’ordine costituito, scardinavano il potere come un punteruolo. Erano oltremodo pericolose, dunque da coprire e disinnescare a ogni costo…
Un quadro, questo, un personaggio che non poteva non appassionare Michele Scozzarra , non solo come concittadino galatrese, ma soprattutto per la sua humanitas così dirompente, tanto da indurre questo fine studioso delle memorie patrie e della nostra terra a rivisitare più volte , studiare, direi vivisezionare , le composizioni in versi dell’abate Martino non solo e non tanto con gli strumenti del pubblicista, ma soprattutto con la curiosità di chi vuole indagare come e perché già due secoli fa la Calabria più chiusa e acerba, Galatro come metafora della più angusta tra le angustie di un territorio abbandonato a se stesso, sia riuscita a partorire uno spirito libero in grado con una sola delle sue poesie di sintetizzare mille trattati di storia e di politica di regime.
E Michele Scozzarra ha studiato, ripreso spesso con profondissima competenza le pagine di questo tanto originale quanto trascurato scrittore calabrese e oggi le ha radunate in un essenziale e prezioso corpus definito ( “Abate Antonio Martino” – Edizioni d’Autore – giugno 2018) che segna sicuramente una pietra miliare per la conoscenza non solo della vicenda umana, spirituale ed ecclesiale di questo grande, ma anche della sua opera certamente scarna, eppure tanto eloquente e pregna di significati.
L’analisi di Michele Scozzarra è affettuosa, ma al contempo ricca di rigore e di chiarezza, come tutti i suoi scritti peraltro, e sono ormai tantissimi e dei quali mi piace qui riportare uno dei più significativi. Ne emerge una figura che vale la pena conoscere e, se si è convinti di averla già conosciuta, di approfondire come merita per riscoprire davvero una tra le tantissime ricchezze inedite della nostra terra.(Bruno Demasi)
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Questo strano prete (che ho avuto modo di scoprire in maniera sempre diversa nel corso degli anni e che, purtroppo amaramente, bisogna riconoscere che appare sempre più sconosciuto alle nuove generazioni, anche del nostro “natìo borgo”), ha avuto la capacità di “calarsi” talmente dentro la realtà culturale ed umana dei nostri paesi, da riuscire quasi a trasfigurare la realtà stessa, rendendo eccezionale quello che altro non è (non so se scrivere: “non era”) se non il normale quotidiano scorrere della vita dei nostri paesi.
L’abate Martino orientò la sua attività in diverse direzioni, non esclusa quella strettamente politica della Carboneria di cui era un affiliato (impegnato a combattere, tra l’altro, anche la politica Vaticana); ma non ha trascurato, in gioventù, di punzecchiare le donne, non si è tirato indietro nell’impegno politico e quando, come si suoi dire, ha capito che ormai “si cogghìu ‘i carti ‘o pettu…”, si è rivolto a Dio e ne è venuta fuori, non solo a mio avviso, la sua produzione più matura, oltre che più intima e personale.
Accusato di avere cospirato contro il regime borbonico, viene più volte arrestato e più volte evade: si dice che si travestiva e si nascondeva alla stregua dei più spericolati banditi, al punto che i suoi avversari avevano accreditato la leggenda chi egli fosse la reincarnazione del diavolo
Incredibile ma vero (e qui, veramente, si vede in Martino uno “spirito libero” incapace di moderare i termini, dove la libertà nel suo scrivere, effettivamente, non conosce nessun tipo di limitazione) è l’episodio relativo alla prolungata anticamera a cui è stato costretto, in attesa di essere ricevuto in udienza dal Vescovo di Messina, il quale si intratteneva con l’Arciprete di Capizzi.
L’Abate Martino scocciato per la lunga attesa, pregò il segretario di consegnare un biglietto al Vescovo, e se ne andò. E… a chi poteva mai venire in mente di rivolgersi al proprio Vescovo con questi versi? Nel biglietto c’era scritto:
L’Accipreviti di Capizzi…
caccia “ca” ca resta pizzi,
caccia “pi” ca resta cazzi!…
E’ previti di pizzi e cazzi!
Certamente, a parte questi versi, non si può immaginare un Martino capace di moderare i termini, Martino è stato grande anche per questo: il suo grande bisogno di libertà, non ammetteva certamente alcuna limitazione di sorta, soprattutto nei suo versi.
Forse questo era un suo modo di sfogarsi: può darsi che, in questa grande libertà di espressione cercava di distrarsi dai mali che vedeva intorno: “…lu mundu prima t’alletta e poi si mustra ‘ngratu!…“, così soleva ripetere il Martino. Forse anche per questo cercava di distrarsi con composizioni “pungenti”, talvolta oltre ogni accettabile misura.
L’abate Martino è stato precettore nella casa del Marchese Nunziante di San Ferdinando; qui, vivendo in casa con loro, si è reso conto che l’autorità non era del Marchese, ma della moglie che, come si suol dire, aveva messo sotto il marito e, da questa situazione, ne trae lo spunto per scrivere “la gonnella”, cioè una “pesante” satira sui mariti che si lasciano comandare dalle mogli:
caccia “ca” ca resta pizzi,
caccia “pi” ca resta cazzi!…
E’ previti di pizzi e cazzi!
Certamente, a parte questi versi, non si può immaginare un Martino capace di moderare i termini, Martino è stato grande anche per questo: il suo grande bisogno di libertà, non ammetteva certamente alcuna limitazione di sorta, soprattutto nei suo versi.
Forse questo era un suo modo di sfogarsi: può darsi che, in questa grande libertà di espressione cercava di distrarsi dai mali che vedeva intorno: “…lu mundu prima t’alletta e poi si mustra ‘ngratu!…“, così soleva ripetere il Martino. Forse anche per questo cercava di distrarsi con composizioni “pungenti”, talvolta oltre ogni accettabile misura.
L’abate Martino è stato precettore nella casa del Marchese Nunziante di San Ferdinando; qui, vivendo in casa con loro, si è reso conto che l’autorità non era del Marchese, ma della moglie che, come si suol dire, aveva messo sotto il marito e, da questa situazione, ne trae lo spunto per scrivere “la gonnella”, cioè una “pesante” satira sui mariti che si lasciano comandare dalle mogli:
Viju ‘na nova moda, assai avanzata,
e nuju mi sa diri la raggiuni.
La saja ‘a tempi nostri è assai prezzata:
si cangia cu rifusu a lu cazuni.
La donna, chi da Ddeu fu destinata
serva di Adamu, diventau patruni,
e ll’omu, diventatu na patata,
‘nci sta di sutta comu nu cugghiuni.
L’anticu si sustinni cu riguri
cercandu la mugghieri servicedha,
mo’ viju ca la donna fa d’atturi:
la mugghieri mu pista lu martedhu.
E’ veru ca ragazzu, lu Signuri,
a Cana si la misi la gunnedha,
ma grandi cchiù non fici sti figuri:
perciò risuscitau, di poi, in pannedha.
Mo’ oji nudhu leji la Scrittura,
mu sapi quantu Cristu seppi fari.
La Genesi, o cazzuni, vi assicura
ca notti e jornu supra aviti a stari.
Mo’ l’omu è donna, è vili servitura,
e pe’ cchiù pena sua non po’ parlari:
si parla abbaja, e poi jestima l’ura,
quandu li cauzi soi vozzi cangiari.
Fu la cazzuni sempri valutatu
ma mo’ no vali cchiù di na cinquina:
tandu era nettu, e mo’ chi fu pisciatu,
puzza di stoccu vecchiu e di tonnina.
E l’omu chi si misi, sciaguratu,
la saja, la suttana e suttanina
di la mugghieri veni dominatu,
stenduta comu viscu o ciavurrina.
E’ chistu l’omu odiernu ‘ncivilutu,
chi vanta libertà e filantropia?
Oh cauzi! Oh saja! Oh tempu!
Omu avvilutu!…
Suggettu ‘a na pisciazza… Uh porcaria!…
Questo era il Martino che, in gioventù, si divertiva a indirizzare i suoi versi in una realtà “leggera e profana”.
Solamente in età avanzata il Martino confessa che tutte le speranze e le illusioni inseguite in giovinezza, spesso si erano trasformate in delusioni: il suo bisogno interiore non è stato appagato né dalle satire, tanto meno dalle poesie politiche; anzi proprio mentre il Martino afferma di essere pentito di tutto quello che aveva scritto, compone una delle sue poesie più belle, “la Confessione del Poeta pentito”:
Venni, vidi, e non vinsi, anzi fui vinto
da tre nemici, e prigionier fui fatto,
quindi al collo, ne’ lombi, ai pie’ fui cinto
da triplice catena a duro patto.
Mille e più volte dal misero
a frangerla; ma che? quand’era atto
or da lusinghe, or da minacce avvinto
fui da quegli empi, e me da me distratto.
Ma se l’ardir, la forza, il pentimento,
Dio, che può tutto, quando vuol m’appresta,
trionferò di mille inferni, e cento.