“LA CHIESA SI SALVERA’ SOLO SE TORNA POVERA”.
Il neo arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, l’ha detto con chiarezza e in Calabria questa drastica affermazione che interessa tutti da vicino tintinna come una lama di acciaio che fende le tenebre del conformismo, della paura, del disagio di vivere il Vangelo nell’ essenzialità del quotidiano, tra i mille problemi e le battaglie da retroguardia che le curie sono costrette ad affrontare giorno per giorno, tra i mille equilibri bizantini che sono costrette a ricercare e mantenere per il quieto vivere e il bene supremo della comunità ecclesiale.
Ma di quale povertà e, di rimando di quale Chiesa e di quale comunità ecclesiale stiamo parlando?
Non certo della povertà strettamente finanziaria, che costituisce casomai problema a sé, quanto della povertà di enfasi e di parole, di compromessi e convenienze, la povertà di una Chiesa che rinunci a calcoli e paure, che abbandoni l’habitus dei silenzi e dell’ossequio pedante verso persone e istituzioni malate, che abbia a cuore veramente la pulizia della scalinata del tempio, che apra con gioia le porte realmente a tutti e non solo alla casta dei presunti addetti ai lavori che proliferano nei primi banchi e nelle sacrestie e al sussiego dei discutibilissimi ammantati di improbabili appartenenze ecclesiali...
Una chiesa che sappia gridare il Vangelo dai tetti, ma con la Costituzione in mano come diceva don Milani, e che abbia a cuore sul serio la cultura e la scuola cattolica e le rilanci con fervore come fatto di tanti, di molti...
Una chiesa che non abbia il timore di incidere i bubboni che le si formano in seno quando il pus dell’interesse cova per anni ed esplode in campagne di morte.
Una Chiesa, in ultima analisi , che non sia timida contro la corruzione e la ndrangheta, che non alzi solo voci flebili, ma sappia anche dare lezioni serie di vita , se necessario, a laici e preti – e ce ne sono – che ostentano stili e comportamenti molto discutibili, persistendo caparbiamente in quello stile annoso di disobbedienza ai pastori, già endemico da queste parti ai tempi del Concilio Vaticano II, quando per i vescovi l’argomento di maggiore interesse era costituito dal Clero, anzi dai problemi del Clero…individuati nella «poca osservanza della legge della residenza; la scarsa cura dell’insegnamento catechistico ai fanciulli e agli adulti; la poca disponibilità ad obbedire al Vescovo, specie dai sacerdoti novelli….» , come scrive Don Letterio Festa in un suo prezioso studio che varrebbe la pena riprendere e approfondire (“Le proposte dei vescovi delle chiese calabresi per il Concilio Vaticano II – cittàcalabria edizioni).
Senza minimizzare altri grandi sforzi effettuati della Chiesa di Calabria, abbiamo due granelli di senapa in questo senso che sebbene stiano crescendo pianissimo, contengono un prezioso DNA di reale rinnovamento.
Il primo risale al 21 giugno del 2014 con la venuta di Papa Francesco a Sibari. Davanti a 250.000 persone il Pontefice tra l’altro disse: "La ’ndrangheta è questo, adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no! Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!”.
Una rivoluzione che lasciò meravigliati anche gli anti-clericali di mestiere, per la nitidezza e la fermezza del linguaggio, ma che ha bisogno di rivoluzionari veri per essere alimentata e portata avanti con fermezza e coraggio: tra i laici, ma anche tra i preti!
Il secondo granello è un vescovo coraggioso al vertice della Conferenza episcopale calabra, Mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, postulatore della causa di canonizzazione di don Pino Puglisi su cui ha pubblicato recentemente due libri che tutti dovremmo leggere e meditare “L’enigma della zizzania - Il Metodo Puglisi”(2016) –“Don Pino Martire di Mafia”( 2017), Ed. Rubbettino.
In una risposta ad una delle tante interviste nelle quali egli col coraggio del neofita più che con la prudenza del vecchio prelato navigato parla in modo aperto del dramma di questa terra, egli afferma a proposito di don Pino:
“Più che predicare un vangelo-contro, Puglisi propone l’annuncio mite del Vangelo della tenerezza. Per questa via, lo stesso martirio di Puglisi diviene una strategia pastorale particolarmente efficace nei campi (ormai troppi e dappertutto) in cui si è insinuata la gramigna delle mafie . Un vero e proprio antidoto silenzioso che mette in crisi la cattiva semina, nella consapevolezza che le mafie non sono mai state un fatto solamente criminale, che i processi e le pene non sono sufficienti quando non accompagnate da un serio e condiviso impegno sociale”.
Ecco, proprio della “cattiva semina “ o della mancata semina quotidiana ci dovremmo preoccupare e soprattutto della mancanza reale di impegno sociale serio, al di là della serie sterminata di parole, convegni, congressi, seminari, tavole rotonde, eventi che nella grande maggioranza dei casi servono appena a coprire qualche lembo di questo vuoto pauroso in cui siamo precipitati oltre che a soddisfare la vanità di gente sempre interessata ai propri scopi.