sabato 14 settembre 2024

UN’ALTRA TORRIDA ESTATE DI SAGRE,TARANTELLE E POESIE IN DIALETTO (di Pino Macrì)

    Dialetto e tradizioni popolari sono un bene enorme e da conservare, fino a quando siano utilizzati per metterli a confronto con altri dialetti/tradizioni, per arricchire sé stessi e gli altri, per formare o costruire un'identità comune, la cui bellezza sta proprio nelle infinite sfaccettature, in quanto, al di là della forma, i contenuti sono sempre gli stessi, e comuni alle medesime classi sociali, ovunque esse si trovino (al nord come al sud, in Italia come all'estero). Questa è quella che ho chiamato "conventio ad includendum".   Quando, invece, si usano con un sottostante spirito razzistico ("noi e le nostre tradizioni siamo i migliori") - esattamente come fanno i "padani" e le loro controfigure dei meridionalisti alla neoborbonica - allora diventano uno strumento per chiudersi in sé stessi, rifiutare il dialogo con il mondo, con l'obiettivo di salvaguardare la propria "razza" (superiore, naturalmente!) dalle contaminazioni esterne. E questa è quella che ho chiamato "conventio ad escludendum".

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    Estate: tempo di sagre. Ovunque. Ormai manca solo quella dell'accia e petrusinu.  Tempo di feste religiose, abbondantemente trasformate in ritualità pagane e/o consumistico - commerciali, con gli immancabili spettacoli pirotecnici, mai come quest'anno un palese, irriguardoso e tetragono schiaffo alla Calabria che brucia nell'indifferenza totale del popolo del ”divertimento ad ogni costo”.  Tempo di tarante, stancamente riproposte sempre più uguali a sé stesse.   E, con la carenza di denari in cassa da devolvere nelle capienti tasche dei divi nazional-popolari della canzonetta, tempo di raduni di poeti e di poesia dialettale. Pardon: ”in vernacolo”. Con tanto di premi, targhe, riconoscimenti, pergamene, e foto ricordo di gruppo finale.

   Già, il dialetto: questo malato da tempo agonizzante al cui capezzale uno stuolo infinito di medici finge di indicare la sola medicina salvifica, la panacea, nella stantia esibizione / declamazione in cui l'applausometro, cioè la misura dell'intensità del gradimento della piazza, è il solo metro di giudizio sulle possibilità di sopravvivenza del moribondo.   Basterà il successo di piazza per salvare il dialetto (il nostro) da morte pressoché certa?

     Alcuni importanti indizi dicono di no. Fra i più certi ed impietosi, l'incomunicabilità di fondo. Che non è quella poeti/declamatori - pubblico in sala/piazza (quella è dimostrata, appunto, dall'intensità degli applausi e dal gradimento annesso), ma quella verso il resto del mondo. Perché una cosa è certa: se la comunicazione verbale diventa una conventio ad escludendum, fatta, cioè, per avvicinare i già vicini senza minimamente preoccuparsi degli altri è fatalmente ed inesorabilmente destinata a soccombere.

   Si dirà: ma è il dialetto stesso, a carattere strettamente locale, a rendersi automaticamente incomprensibile all'esterno. Dunque, Shakespeare non potrebbe essere compreso fuori dall'anglofonia? O Dante non potrebbe essere studiato (ed apprezzato! Eccome se apprezzato!) fuori dai confini dell'Italia? Ma per questo esistono le traduzioni! Senonché, le traduzioni hanno un senso quando c'è qualcosa che valga la pena tradurre, esportare, condividere: quando, cioè, l'oggetto stesso della traduzione è in grado di arrivare ai cuori di un francese, di un inglese, russo o polinesiano e dialogare con essi. E per farlo, bisogna uscire dall'idea che l'intero creato sia costituito dal microcosmo dialettale in cui ciascuno di noi è inserito e offrirsi di dialogare col mondo, tenendosi ben stretta la propria identità locale.
 
   Non è certo il pensiero di un intellettuale snob, il mio, perché dialogare con i non-calabresi (cioè con il resto dell'universo…) è molto meno difficile di quanto si possa pensare: la condizione contadina di un Rosario Dattilo è la stessa del non privilegiato del Veneto o della Toscana, come quella nel povero Sudan o nei ricchi Stati Uniti; le favole apologetiche di un Cecè Guerrisi saranno apprezzate in Grecia come in Inghilterra o in Francia; il disagio esistenziale di un Daniel Cundari (che declama con successo in Spagna anche i suoi componimenti in dialetto cosentino) è lo stesso che vive un giovane spagnolo o cecoslovacco o venezuelano; l'alienazione dei personaggi di ”Per favore non scherziamo” di Pino Ammendolea non è dissimile da quella canadese, svedese, tedesca...

   E le traduzioni non tradiranno il dialetto: anzi, ne esalteranno le capacità comunicative ed evocative, ricevendone in cambio, semmai, rinnovate possibilità di sopravvivenza. Purché si esca, una volta per tutte, dal circolo vizioso, di volta in volta nostalgico (i tempi 'i na vota …), etno-nazionalistico ('a Calabria esti 'a cchiù bella terra d'u mundu…), sentimental-intimistico (pàtrima, màuma ecc.) o ludico-scatologico ('u piditu, 'a cacata e via dicendo) e si inizi, finalmente!, ad usare una vera (e comprensibile anche ai compaesani) lingua scritta, ma in modo corretto e non casuale. Anche a costo di inventarla di sana pianta. Ma di questo, semmai, parleremo in un'altra occasione.

                                                                                                                                      Pino Macrì