lunedì 15 aprile 2024

IL CAFFE’ DI DON ROCCO LIBERTI (di Rosario Condò e Rocco Liberti)

    La prima parte di questo interessante e spassoso articolo vide la luce, a firma di Rosario Condò, autore anche della gustosa ricostruzione grafica dell'entrata del bar Liberti  a Oppido, negli  anni  Settanta del secolo scorso su un semplice, ma gloriosissimo periodico mamertino stampato in ciclostile, "MAMEPTINON". La seconda parte invece, a firma di Rocco Liberti, nipote del protagonista  principale  di questa bella pagina, è completamente inedita. Entrambe  illustrano con rigore storico e documentario uno spaccato di vita mamertina  a cavallo tra il XIX e il XX secolo e proiettano il lettore  con immediatezza nel passato glorioso di un paese che all'epoca, malgrado i ricorrenti terremoti e le ristrettezze dei tempi difficili,  coltivava a ragione speranze di ulteriore grandezza sia a livello urbanistico sia a livello sociale e culturale. Atmosfere quasi cittadine, vita semplice e persino allegra nel poco che offriva il quotidiano, ricchezza di industriosità, lavoro immane nei campi e nei piccoli e grandi opifici di paese: tutto mostrava la voglia di crescere e di migliorarsi che nel tempo è inesorabilmente venuta meno.(Bruno Demasi)

 
    Ogni paese grosso o piccolo che sia ha sempre avuto in tutti i tempi i suoi Personaggi, uomini di cultura, notabili ecc., ma nella vita paesana di ogni giorno non sono mancate persone, che, pur non appartenendo a quel rango, si sono tuttavia rese meritevoli di stima e benevolenza per chiarissime qualità e determinate attività professionali, artigianali, commerciali e via dicendo o per locali caratteristici, che in uno col proprietario hanno fatto epoca e il ricordo dei quali si è tramandato per diverse generazioni.

   Il “Personaggio” con il suo locale che presentiamo, cercando di mantenerci nella più ristretta brevità, è “Don Rocco Liberti” proprietario della bottega detta “il Caffè” esistita in Oppido Mamertina fino al 1924 e da lui iniziata probabilmente tra il 1880 e il 1885 nei locali del piano terra rialzato di casa Frascà, i cui lati principali erano posti a fregio rispettivamente sul Corso e sulla via Oratorio col numero civico 47, dirimpetto alla farmacia Simone e con ampio angolo visuale sulla grande piazza Umberto I, “il salotto di Oppido”.

   Al “Caffè” si accedeva per due ingressi: dalla via Oratorio e dal Corso, superando tre gradini di marmo bianco di Carrara. Ai lati, dal limite delle portiere e ancora dentro, facevano bella mostra eleganti vetrine, con esposizione di bottiglieria delle migliori Case di liquori del tempo e alcune specialità in artistiche confezioni, quali il Corfinio in anfore pompeiane di terracotta con fine decorazione, ottima imitazione dell’antichità. Sulle pareti esterne campeggiava in grande formato e stampata su lamiera l’effigie dei “due vecchi” la famosa pubblicità del rinomato cacao Talmone mentre la porta dell’ingresso principale sul Corso era sormontata dall’insegna con la dicitura “CAFFE’ Rocco Liberti”.

   L’interno non era molto vasto, però si qualificava di giuste proporzioni per le necessità che allora richiedevano tali generi voluttuari, che, fatta eccezione per le caramelle e simili, proprie dei ragazzi, erano riservati soltanto alla cosiddetta “gente perbene”. Il locale risultava arredato con scaffalatura di sobria eleganza e l’esposizione dei dolciumi e della confetteria multicolore appariva ben disposta, specialmente l’assortimento della cioccolata. Questa era così bene offerta in mostra entro una speciale bacheca a scomparti poggiata con piano inclinato sopra una parte del bancone di vendita, che attirava subito l’attenzione della clientela. Il tutto s’inquadrava nello stile caratteristico della seconda metà del XIX secolo.

   Don Rocco, così lo chiamavano tutti in Oppido, era un bel pezzo d’uomo dall’aspetto gradevole, dal carattere multiforme, serio abbastanza e al tempo stesso faceto e arguto e non gli veniva meno il senso dell’umorismo. Difatti, non appena si presentava l’occasione, non mancava mai di attuare allegre burle e piacevoli scherzi, che molti ancora ricordano.   Religioso di ferma credenza, praticante ma non bigotto, teneva l’amministrazione e le cure della chiesetta del “Calvario” e ne seguiva con zelo l’andamento delle Sacre Funzioni, specie durante il periodo particolarmente impegnativo della S. Pasqua.

    Ci sapeva fare e bene nel commercio e non si accontentava di trattare soltanto i generi dolciari e il caffè, che preparava ottimo, ma si occupava pure di mercanzia di ogni genere, insomma un vero bazar, che teneva in altro locale attiguo al Caffè, con scaffali bianchi e rifiniture dorate, coi colori che si armonizzavano ai merletti, trine, rocchetti di filo e via discorrendo. A smerciare questa roba ci pensavano i familiari tra una faccenda e l’altra della casa. Si offrivano anche grandi caratteri dorati e nastri per le corone funerarie. Diciamo che c’era di tutto.

   Per inquadrare il soggetto nella giusta dimensione quale primario commerciante oppidese del suo tempo stimiamo opportune dire come egli, pervenuto da modeste origini, ha saputo, con le sue diverse attività, attirarsi l’unanime stima e le simpatie dell’intero paese. Il suo nome era divenuto talmente familiare che perfino i ragazzetti, quando volevano acquistare le caramelle “a vetro” (zucchero lavorato) da lui prodotte e che allora costavano cinque un soldo, dicevano “andiamo da don Rocco” e uscivano felici dal Caffè e con la bocca addolcita.

   I genitori gli sono venuti a mancare prestissimo (il padre, Giuseppe, faceva di professione il merciaio e la madre, Teresa Franconeri, apparteneva pur essa a una famiglia di commercianti, precisamente di “liquoristi”) e da ragazzo, con tenace volontà, si è messo a lavorare per procacciarsi il necessario per vivere, senza tendere la mano a nessuno, affrontando vari mestieri, dal musico a quello dell’umile conduttore nel Circolo dei Nobili, a quel tempo situato nei “bassi” del palazzo Saverio Grillo, a nord della Piazza Umberto. È stato appunto in questo locale che ha avuto inizio la rapida ascesa di don Rocco. Capitava spesso al Circolo Candido Zerbi, persona facoltosa e di primo piano nella vita oppidese e Senatore del Regno dopo l’unificazione nazionale, che, stando a conversare con gli amici, osservava ammirato la sveltezza, i modi garbati e la vivace intelligenza del giovane. Presolo a benvolere, ha deciso di toglierlo da quel lavoro e con la spontanea e generosa offerta finanziaria lo ha avviato al commercio aprendogli un negozietto di generi diversi (zucchero, caffè e altri generi coloniali). In breve volgere di tempo Don Rocco, con la modesta fortuna racimolata, frutto della sua avvedutezza negli affari, è riuscito a impiantare il “Caffè” dianzi descritto.

   In quel tempo le macchine automatiche per la preparazione rapida del caffè erano soltanto nella mente del Padreterno e don Rocco approntava la gustosa aromatica bevanda con delle enormi caffettiere dette “alla napoletana”. Per soddisfare la numerosa clientela mattiniera (braccianti, contadini, operai ecc.) si alzava di buonora per accendere il fuoco nella fornacella e fare il caffè, che serviva fumante nelle tazze, con l’aggiunta di uno “schizzo” di anice per chi lo preferiva. La bevanda costava allora cinque centesimi, dieci con lo schizzo. Ottimo gelatiere, preparava eccellenti gelati e rinfreschi con materie genuine, soprattutto in occasione delle due principali festività di Maria SS.ma delle Grazie a Tresilico e di Maria SS.ma Annunziata a Oppido. Per attirare l’attenzione dei festaioli esponeva davanti alla bottega e sui ripiani di artistici tavolini in ghisa, opportunamente addobbati, alcune forme di piombo, che allora si usavano per comprimere la pasta del gelato nei colori appropriati e per ottenere con bell’effetto l’imitazione della frutta: il grappolo d’uva, la pera, la pesca, il pomodoro ecc. Eccezionalmente, il servizio veniva attuato anche quando era richiesto per sponsali e altre cerimonie importanti. Don Rocco produceva pure nel suo Caffè olio di mandorle, che forniva a farmacie, drogherie e a privati e fra l’altro teneva bibite rinfrescanti purgative. Insomma, il Nostro si forniva di tutto quanto era allora possibile per soddisfare le richieste più impensate della vasta clientela, non solo oppidese, ma financo di paesi come Varapodio, Castellace e S. Cristina[1].

    La bottega del Caffè, nel posto in cui si trovava e con la farmacia Simone accanto, costituiva il punto più elegante e movimentato della cittadina e nelle giornate festive il passeggio con i giovinotti vestiti a nuovo s’intensificava e le consumazioni del caffè, dei liquori e altro toccava punte massime. Dobbiamo aggiungere che per i giovani c’era pure una deliziosa attrazione, perché don Rocco aveva avvenenti e belle figliole in età da marito, rinomate per tutto il paese e dintorni, sia per le fattezze muliebri stupende quanto per la serietà e le preclari virtù. Don Rocco in famiglia era affettuosissimo, ma altrettanto severo e non si scherzava facilmente quando si trattava dell’educazione dei figli. Una delle ragazze, la più simpatica e svelta aveva appreso l’arte del padre e con disinvolta compostezza serviva anche lei nel negozio, cosa per quei tempi assai rara, dato che ancora le donne nei nostri paesi non comparivano mai nei locali pubblici. Di essa, appena diciottenne, un giovane professionista di Vibo V. giunto in Oppido per assumere la condotta zooiatrica, praticando con una certa frequenza il locale, se n’è invaghito e l’ha sposata nel lontano 1910.

    È giunto adesso il momento di dare una pennellata di buon umore al nostro racconto per mettere in risalto la vena comica del Nostro, il quale attuava i suoi scherzi e le sue burle con arguta semplicità nel clima del suo tempo altrettanto semplice e bonario sotto alcuni aspetti. Ecco uno dei suoi gustosi scherzi.

   Indirizzata male, capita nel Caffè una persona sugli anni, con un paio di baffoni e vestito con cura contadinesca, probabilmente sceso da Piminoro, che chiede: -Ho bisogno di una fotografia a mezzo busto. - Don Rocco lo squadra da capo ai piedi e lì per lì pensa: -Questa è la volta buona- e risponde: - Si, ma non sono io il fotografo. È mio fratello, che vado subito a chiamare. Intanto voi tenetevi pronto su questa sedia.

   Che cosa non combina il Nostro! Va nel retrobottega, si ficca in capo un berrettone, si avvolge al collo una sciarpa di lana, cambia la voce e fa: -Volete una fotografia? Eccomi da Voi. - Apre uno scaffale e trae uno di quegli scatoli a forma di cubo con dentro la sorpresa, che i ragazzi acquistavano spesso e dove la sorpresa era costituita da un pupazzetto che scattava fuori a mezzo di una molla azionata premendo un pulsante. Dice: Bene! Aggiustatevi la cravatta, volgete lo sguardo verso di me, sorridete e state fermo. - Tac! Si apre lo scatolo e balza fuori un pulcinella. La fotografia è bell’e fatta!

    Il povero contadino, rimasto perplesso e confuso, non sa se arrabbiarsi o ridere e con voce risoluta tuona: - A me non pare che tutto questo significhi una fotografia! - Allora don Rocco, senza punto scomporsi, con la sua rituale bonomia e col mezzo sorrisetto sotto i baffi risponde: -Ma, amico mio, non vedete che qui si vendono dolci e caramelle e si fa il caffè? A questo punto al malcapitato non resta che un “Scusatemi tanto e buon giorno”.

   Il tempo con la sua inesorabile fretta correva veloce. Erano passati molti anni di fecondo lavoro con fugaci gioie e immancabili avversità, quando un giorno, un triste giorno, il proprietario dei locali del Caffè Maestro Vincenzo Frascà pregava don Rocco di trasferire altrove il negozio perché venuto nella necessità di demolire il vecchio palazzo per dare corso ai lavori per la costruzione del nuovo edificio finanziata col mutuo spettante ai terremotati del 1908. Per Don Rocco è stata una trafitta al cuore. In pochi giorni il Caffè è stato smontato e adattato in un “basso” di sua proprietà situato sulla stessa via Oratorio, un fuori mano, lontano dal movimento cittadino e con davanti la mole del palazzo Malarbì. Lo sconsolato barista aveva lasciato nell’antico locale i più cari ricordi e da lontano sentiva i colpi del piccone demolitore e quei colpi demolivano pure la sua personalità. Rattristato e intelligente com’era, giudicava impossibile un ritorno allo splendore di un tempo e dopo il trasferimento coatto, passato qualche anno appena, finiva i suoi giorni il venerdì santo del 1924. Aveva 69 anni.

   Con la fine del Caffè ottocentesco e del suo proprietario si chiudeva definitivamente un’epoca di serena semplicità e di misurato benessere. Pochissimi, anzi rari, sono rimasti coloro i quali ricordano qualche cosa di quanto abbiamo detto e per un caso, seppure di scarsa importanza, il nome è citato nell’opera “Oppido Mamertina riassunto cronistorico” del Frascà. Difatti a pag. 185 si legge “In questa casa, Via Oratorio, N. 47, nel “Caffè” del compianto Rocco Liberti, a pian terreno, tutte le bottiglie di liquori si rovesciarono e molte si ruppero” (Terremoto del 16 novembre 1894).

Rosario Condò
* * *   
Non ho alcun ricordo di mio nonno. Quando è morto, mio padre andava appena per i 16 anni. Conosco di riflesso solo quanto le tre “ziane” rimaste in Calabria raccontavano allorquando si verificava un incontro familiare. In ogni occasione era un continuo ridere tanti erano gli episodi esilaranti. Rocco Liberti era sì sempre pronto a combinarne una delle sue, ma non gli era da meno il suo dirimpettaio, il farmacista Dott. Vincenzo Simone, che non si faceva pregare per escogitare nuove marachelle tenendogli bordone alla grande. Tra i due buontemponi si faceva a gara. Un giorno una donna piuttosto anziana si è presentata in farmacia a richiedere, forse pronunziando male il termine, una strana medicina, il verbiakir (?). Don Vincenzo non ha perso tempo in mezzo e, rivolgendosi alla malcapitata, si è così espresso: No, non ce l’ho. Ce l’ha sicuramente il barista di fronte. Andate da lui. La poveretta ha obbedito all’indicazione offerendo che glielo aveva suggerito il farmacista. Don Rocco, capita l’antifona, ha subito individuato un pesante mortaio di marmo e glielo ha caricato offerendole di portarlo a chi glielo aveva detto. Quando il Simone, che non se lo aspettava, ha visto arrivare di nuovo la poveretta vacillante con quel pesante carico in testa, è scoppiato in una sonora risata, ma mal gliene è incorso perché ha ricevuto per premio una serie d’improperi d’ogni genere. Quando è troppo è troppo!

  Lavorava al Caffè come inserviente o aiutante di vario genere un certo giovane non molto dotato che ne subiva di cotte e di crude. Siccome era lesto di mano, il Liberti quando doveva assentarsi per andare a casa sua distante qualche metro, lo invitava a montare in una specie di soppalco tramite una scala che subito ritirava. Il poveretto era costretto a stare fino al suo arrivo, pochi minuti certo, in quella scomoda posizione e non faceva che imprecare “mannaja don Rocco, mannaja don Rocco”. Con tale accorgimento si ottenevano due cose: si evitavano sottrazioni di ogni genere e il bar restava guardato a vista. Nei primi giorni di maggio per tanti commercianti la metà era Terranova con la festività del SS. Crocifisso. In un’occasione il giovane, vedendo che si tardava a partire tanto si è reso noioso con la sua richiesta: E quando jmu a Terranova? che quegli ha preparato la solita valigia e gli ha detto di precederlo. Allora a Terranova si andava col caval di S. Francesco e a portar anche qualche oggetto durava fatica. In quell’occasione però la valigia era più pesante del solito. Il tizio procedeva come poteva, ma borbottava sempre più: chi misi don Rocco nda sta valigia? Diavuli? A un certo punto non ne può più e ne forza l’apertura. La sorpresa: conteneva anche delle pietre e ben grosse. Immaginarsi le contumelie indirizzate all’autore del gesto!

    I ragazzi soliti a passare davanti al Caffè non mancavano di allungare la mano per fregare qualche caramella, ma allo scartarla si accorgevano che dentro c’era solo una pietruzza. Era l’accorgimento usato a guardarsi dai possibili ladruncoli. Me ne ricordava ogni tanto mio suocero, che qualche volta n’era stato vittima.

  Erano tante le storielle che le “ziane” avevano nel loro repertorio, ma a me piaceva soprattutto quella dell’arrivo dei parenti. Un bel giorno, avendo appreso che a Oppido c’era una famiglia di Liberti, un nucleo del prossimo litorale dallo stesso cognome e che in origine apparteneva di sicuro al medesimo ceppo per ricerche documentarie che ho effettuato, si è proposto di recarvisi in visita. Veniva da un centro assai più importante e, quindi, doveva trattarsi di gente facoltosa e altolocata. Figurarsi quindi le aspettative! Soprattutto da parte delle ragazze, che fantasticavano come loro natura. Il giorno del preventivato arrivo all’ora di pranzo stavano perciò in vigile attesa. Certo, sarebbero giunti con una automobile, mezzo allora alquanto raro, sfoggiando chissà quali vestimenti! Nell’attesa sbirciavano da qualche agevole posizione, quando hanno avvistato un vecchio carrozzino o carretto e da questo qualcuno chiedere della famiglia Liberti. Immaginarsi la disillusione quando hanno visto scendere gente vestita piuttosto dimessamente e con qualche paniere o scatolo in mano! Si sono subito dileguate e non volevano saperne di approcciarvisi, ma mio nonno, ch’era sì amante di burle, ma si qualificava pur sempre persona seria, si è imposto esclamando: - Sono venuti come parenti e come tali dovranno essere accolti. Naturalmente, a distanza di tempo nelle ricorrenti narrazioni la vicenda veniva colorita e di parecchio. Le “ziane” vedevano le cose sempre a suon di satira anche se piuttosto bonaria. D’altronde non ne lesinavano del pari a loro stesse. Le autoironie erano perciò frequenti. Ne ricordo qualcuna. Ormai piuttosto attempate, un giorno si trovavano a Bagnara in occasione della nota festa di agosto. Stanche, si sono sedute su una panchina. A un bel momento quella ch’era al centro prima mira lei stessa, poi dà un rapido sguardo alla sorella a sinistra quindi a quella di destra e subito autoderidendo lei e le altre sbotta in un: “O figghiòli, parìmu propriu ‘e tri testi di’ lametti”. Al tempo la marca di lamette Tre Teste, che offriva alla vista tre teste di biondone, era alquanto in voga.

    Non so se c’entrasse mio nonno, ma a Oppido gli ideatori di burle pesanti non mancavano proprio. Raccontavano sempre le mie zie che sul finire dell’Ottocento al tempo delle lotte comunali tra i partiti Bianco e Rosso, il vincitore di un certo anno ha allestito nel salone del Comune un sontuoso pranzo con invitati e portate di ogni tipo. A essere ospitati erano naturalmente quanti facevano parte dei vincitori. Gli altri dovevano accontentarsi a guardare dalla piazza coloro che gozzovigliavano e di sicuro si rodevano. Erano tempi di fame e a molti mancava perfino il pane. Ma era tutto finto compresi i camerieri che mimavano di recare solennemente in braccio le varie portate.

   Se non ho conosciuto mio nonno, ho ben impresso il ricordo del farmacista Simone, avendo questi vissuto fino alla bella età di 94 anni (+1964). Era sempre presente nel suo locale, ma a prendere i medicinali dagli scaffali si offeriva Maria. Questa, contadina tracagnotta, era sempre pronta a rispondere al comando seduta solennemente su una sedia accanto. Si qualificava piuttosto rustica e faceva di tutto, la cameriera, la baby sitter e la conduttrice di un fonduscolo. Era caratteristico vederla salire verso Oppido tutta bardata sul mascolino con gli scarponi e a cavalcioni su un’asina frammezzo le cofane laterali. Era senza dubbio una gran lavoratrice, ma spesso scaricava le sue ire sul povero Melo, un orfano di madre ch’era a tutto servizio. È vero, non era una gran cima almeno dal punto di vista cognitivo e comportamentale, ma lei non gliene perdonava una e le botte non mancavano. Alla fine il poveretto è stato assunto dal Comune in qualità di spazzino e ha operato meglio e più degli altri.

   Allora non c’erano i mezzi di oggi che in un battibaleno ti fanno arrivare qualsiasi ordinazione e a ogni richiesta di un medicinale la risposta solenne e melliflua del farmacista era sempre la stessa: Arriverà con l’autobus delle cinque. Naturalmente, a furia di ripetersi, in paese era diventata una ricorrente battuta. Il dott. Vincenzo era sempre gioviale e trattava con molto garbo e alla consegna di ogni flacone profferiva con tanto di sorriso un: Servito! Naturalmente, la risposta era inequivocabilmente: Favorito, grazie! Quell’unica volta che mi ha detto Favorito al posto di Servito ho corrisposto con quest’ultimo termine. Non è da dire quando me ne sono accorto la profluvie di Scusate e di Favorito. Lo scambio del termine veniva davvero piuttosto facile e naturale. Sono stato amico dei figli Mario, professore alle Medie, calciatore della Mamerto dei vecchi tempi, allegro e gioviale conversatore, ma soprattutto di Armando, farmacista anche lui. Quest’ultimo andava pazzo per i polizieschi e i gialli e lo scambio era continuo. Pure lui persona dabbene.

   Anche tra i Simone la propensione allo scherzo doveva essere di casa. Lavorando qualche tempo alle Poste di Varapodio, ho conosciuto un fratello del farmacista, Domenico (i Simone provenivano proprio da quel paese), il titolare di una Esattoria, che non era da meno del congiunto. Quando capitava di andare nel suo ufficio si profondeva in effusioni, inchini, offerta di sedia e di quant’altro, ma il tutto restava sempre nell’aria. Era solo una recita. Una volta ch’è capitato all’ufficio postale d’accordo in tre ci siamo sbracciati a imitarlo all’unisono. Lui ha subito capito l’antifona e, tutto sornione, si è messo a ridere sotto i baffi rifiutando ogni esagerata profferta. Era un’azione che si ripeteva a ogni occasione. In verità, non ce la lasciavamo mai sfuggire. Vendetta tremenda vendetta!

Rocco Liberti

[1] Leggo in una delibera di Giunta del 26 novembre 1910 che per la venuta in Oppido degli onorevoli De Nava e Nunziante a motivo dell’istituzione del Comitato per l’istruzione e l’educazione popolare il 16 precedente hanno fornito paste dolci Giuseppe Franconieri e veneziane, biscotti e liquori Rocco Liberti. Al tempo c’era anche un Caffè Lucisano. Nel 1909, come da delibera dell’1 settembre 1909 il titolare Giuseppe Lucisano aveva procurato caffè e rosolio al presidente e ai componenti del seggio elettorale. Nel dopoguerra il caffè Lucisano era allogato in bassi ubicati nella parte bassa della piazza Umberto I, oggi di proprietà Gugliotta. Ne ricordo il titolare, un vecchietto alquanto bassino (ndr).

venerdì 12 aprile 2024

I VERSI E I GIORNI SENZA PACE DI LORENZO CALOGERO (di Bruno Demasi)

    Alcune semplici verità, a parer mio, sono state scritte da  Eugenio Montale sulle pagine del “Corriere della sera” a proposito del calabrese Lorenzo Calogero subito dopo la strana e solitaria morte di questo grande poeta, a cui solo il tempo ha dimostrato e sta dimostrando vera e disinteressata amicizia. Osservò che egli era “dotato di reale temperamento poetico” e che “non scriveva la sua poesia, la viveva… restituendo in parole il soffio della vita”. Forse qualcuno scioccamente potrebbe obiettare a Montale che quasi tutti i poeti “ vivono” la loro poesia, ma tale obiezione, particolarmente oggi, sarebbe facilmente smontabile perché la grandissima parte dei “poeti” si limita a scrivere (tanto) e non sa, o forse non può , vivere (almeno un po’) la vera poesia. Essa per Lorenzo Calogero fu la stessa aria che egli respirava, il sangue e la linfa che malgrado tutto nutrivano i suoi dolorosi giorni oppressi da un male orribile , quel “ male di vivere” a cui lo stesso Montale dedicò una propria lirica dicendo di averlo sfiorato spesso, ma col quale Lorenzo Calogero fu invece costretto a combattere per tutta la vita, quella malattia del cuore, del cervello e dell’anima che trancia il presente e il futuro e consente al massimo di trascinare la propria esistenza solo nei ricordi, nel passato.

   Era nato nel 1910 a Melicuccà, nella povertà di un territorio abbandonato a se stesso nella profonda provincia di Reggio Calabria e, dopo varie traversie, anche familiari, era riuscito a laurearsi in Medicina e Chirurgia, iniziando a esercitare nel suo paese e altrove, ma proseguendo in maniera molto discontinua. La sua ossessiva ricerca era quella di relazionarsi con gli altri attraverso la sua poesia, la sua ragione di vita, il suo canale espressivo e argomentativo univoco che aveva bisogno come l’aria di qualcuno che pubblicasse i suoi versi. Cercò di entrare in contatto con altri poeti, di scrivere su riviste di grande tiratura, di interessare vari editori alla propria opera che intanto cresceva a dismisura, ma non ci riuscì. L’ ossessione della morte iniziò presto a opprimerlo e a inibire ogni suo tentativo di ribellione e di ricerca del bello , come la lunga relazione epistolare e poi il trasporto vissuto per Graziella. Tentò due volte il suicidio, a 32 anni e a 46, e concluse la propria tormentata eistenza nel paese natale in circostanze rimaste purtroppo oscure: qualcuno dei vicini di casa lo vide per l’ultima volta il Il 21 marzo del 1961 e dopo quattro giorni il suo corpo senza vita fu trovato nel suo letto. 


     Fece clamore la sua povera e solitaria morte e il mondo della cosiddetta cultura si mobilitò a posteriori per dire e scrivere di tutto e di più, come spesso accade, sulla parabola esistenziale e sull’opera quasi del tutto ancora sconosciuta di questo sfortunato poeta senza tempo e senza schemi. Appena ad un anno di distanza dalla sua morte venne pubblicato da Lerici il primo volume delle sue “Opere poetiche” e, come osservarono in tanti, ne scaturì quasi un vero e proprio caso letterario, nel quale Lorenzo Calogero fu da varie parti assimilato ad Athur Rimbaud. Il cerchio della critica letteraria italica, che per decenni lo aveva sistematicamente ignorato, sembrava chiudersi dentro il solito clichè che uccide la memoria e la storia di un artista assimilandolo scioccamente ad un altro grande del passato apparentemente simile a lui.

   Negli stessi mesi veniva pubblicato sul Corriere della sera l’articolo , sopra ricordato, di Eugenio Montale, al quale, a parte gli indiscussi meriti già attribuiti, serie obiezioni si potrebbero muovere allorquando egli afferma che il problema riguardo a questo infelice poeta, vissuto in questo lembo estremo di Calabria, sarebbe quello di “definire entro quali limiti l’apporto del Calogero alla poesia italiana del nostro tempo debba ritenersi positivo” , capire che “la difficile poesia di Calogero, deve attendere la sua verifica dall’invecchiamento”, prendere atto che «Questo poeta costituzionalmente incapace di vivere si era creato un habitat di parole poco o nulla significanti, non tanto espressioni quanto emanazioni del suo ribollente mondo interiore” 
 
    Tre giudizi che il nobel per la poesia si sarebbe potuto risparmiare per un duplice ordine di motivi: intanto perché un artista della parola come Montale non può arrogarsi il diritto di giudicare tout court un “collega”, come Calogero, minimizzandolo, guardandolo quasi dall’alto dei propri blasoni poetici; secondariamente perché la qualità della poesia vera non si giudica come un vino affermando più o meno “ vediamo se con gli anni questi versi diventeranno d’annata o si trasformeranno in aceto”; infine, che Lorenzo Calogero fosse “costituzionalmente incapace di vivere” è pura, dolorosissima verità ( lo testimoniarono i suoi ricorrenti ricoveri in luoghi di cura per la malattia mentale, le sue dolorose rinunce a tutti e a tutto, ma non all’ossigeno dei suoi giorni, la poesia) ma è molto discutibile affermare, come fa sbrigativamente Montale, che egli “ si era creato un habitat di parole poco o nulla significanti…” perché l’espressione poetica di Calogero è tutt’altro che vuota e poco significante, ha invece sintassi e contenuti e armonie incredibilmente lucide e serie:

 

Se i tormenti sono tristi,
l’edera non è mattina o si colora.
Si vela o duole una viola
e dondola nube odorosa
su l’orizzonte lucida di brina.
Ecco quanto di tanta vana speranza resta
o fugge rapida o semplicemente,
silentemente accade.
I carnosi veli, i velli di bruma,
le origini stellate assalgono l’aria,
le tumide vene delle vie le ore.


    Quelle che per Montale sono “ parole poco o nulla significanti” ci appaiono invece paradigmi di vita, di sofferenza e di ricerca espressiva del tutto personali, all’interno dei quali occorre trovare la vera grandezza di queste liriche assolute e inimitabili.

   Non voglio e non posso riportare stucchevolmente qui, in questo breve e commosso ricordo di colui che ritengo davvero un grande della poesia, altri suoi brani poetici, lasciando che sia la declamazione di alcuni suoi versi fatta magistralmente da Roberto Herlitzka, che qui di seguito riporto, esempio e testimonianza per chi ancora non conosce Lorenzo Calogero. 



   Non sono neanche in grado di tentare una sia pur breve analisi della sua sterminata produzione poetica di cui la benemerita ( oggi non più esistente) casa editrice Lerici ha pubblicato nel tempo con coraggio i seguenti titoli:

POCO SUONO (1933-1935)
PAROLE DEL TEMPO (1932-1935)
MA QUESTO … (1950-1954)
COME IN DITTICI (1954-1956)
AVARO NEL TUO PENSIERO (1955)
SOGNO PIÙ NON RICORDO (1956-1958)
QUADERNI DI VILLA NUCCIA (1959-1960)



     Ad altri il compito di ritornare a ragion veduta e senza i soliti orpelli critici e beceri sulla figura e sull’opera , ancora in buona parte sconosciuta, di questo grande . Forse occorrerebbe a tale proposito prendere esempio dal modus operandi del mondo culturale americano che non vive in nessuna torre d’avorio e non lavora mai storcendo il naso. Ne è stato un esempio il progetto ( non pagato e non milionario) di traduzione delle poesie di Lorenzo Calogero (An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960, a cura di J. Taylor) che, non a caso, vinse il Premio dell’Academy of American Poets, che testimonia il vero valore di quesa poesia, colpevolmente dimenticata anche da noi Calabresi, e che avrebbe molto da insegnare agli Italiani in materia di esegesi e di critica letteraria.


Bruno Demasi

martedì 2 aprile 2024

IL BELLO E IL MENO BELLO DELLA DEMOCRAZIA (di Rocco Liberti)

    Il sistema proporzionale, ma non solo esso, a Oppido Mamertina nelle elezioni amministrative dei decenni passati sembrava fatto apposta per fomentare non solo accordi sottobanco e battaglie accese ( o presunte tali) tra antagonisti durante la tornata di votazioni, ma soprattutto lotte intestine nei vari partiti per le scelte delle candidature: il quadretto che ne traccia magistralmente Rocco Liberti in questa pagina, che rievoca vicende da lui vissute con coerenza e  in prima persona nell’agone politico,  è puro divertimento , tanto più spassoso quanto più vero fin nei minimi particolari, molti dei quali misericordiosamente sottaciuti per ragioni fin troppo ovvie. Era la politica del calcolo centellinato del voto, della ricerca affannosa dell’ approvazione popolare, ma soprattutto del desiderio di legittimazione ideologica della quale in fondo non fregava niente a nessuno. Era sicuramente un’ubriacatura di personalismi, di frasi roboanti, di ostentazioni familistiche che prendeva il posto del decisionismo fascista che fino a pochi anni prima aveva completamente impedito alla gente di pensare in proprio. Era soprattutto l’Italietta provinciale della Democrazia di cui tutti si riempivano la bocca, ma che davvero  pochi esercitavano con coerenza e vero slancio verso il bene comune.(Bruno Demasi)

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   A Oppido, come in altri centri, un appuntamento periodico era rappresentato dalle rituali sedute del consiglio comunale. Non abituati a seguire discussioni di carattere politico, amministrativo e altro dato che il vecchio regime faceva da solo senza chiedere permesso a nessuno, tali si configuravano davvero dei richiami indifferibili. Si partecipava sicuramente per essere edotti di quanto si operava nell’interesse dei cittadini, ma contemporaneamente la sirena si qualificava il piacere di assistere alle frequenti liti tra oppositori. I commenti naturalmente venivano espressi fuori l’edificio, davanti al quale si formavano chiassosi capannelli. A suscitare una vera attrazione anche gli interventi dei consiglieri poco dotati d’istruzione, che naturalmente avevano il diritto di dire del pari le proprie ragioni. Solo che offrivano un italiano dialettizzato con espressioni che inducevano al riso. Ce n’era più d’uno in particolare che non lasciava passare seduta senza alzarsi alla fine per dire la sua e, quando non lo faceva, qualcun altro lo invitava a pronunziarsi. Naturalmente gli astanti stavano sempre in attesa. 

    Ma non erano soltanto i consiglieri dotati di estrema bonomia ad attirare i curiosi perché c’era dell’altro. Negli interventi spesso si trascendeva e i capi partito non stavano a lesinare nel dirsene di cotte e di crude. Per fatti personali si è arrivato perfino a minacciare denunzie alla magistratura, ma il tutto è presto rientrato. Una volta nei primi a. ‘70 dal pubblico è intervenuto con un’espressione triviale un certo galoppino e il sindaco del tempo ha immediatamente invitato a chiamare i carabinieri, ma anche in tal caso con la pace dei buoni tutto è finito e, come scherzosamente si dice: “a tarallucce e vino”. 
 
    A Oppido, nonostante la contrapposizione tra i diversi schieramenti risultasse piuttosto estremistica, non ricordo particolari di sorta circa avvenimenti che abbiano potuto trascendere il normale rapporto tra i cittadini. Peraltro, a elezioni concluse ogni alzata di scudi rientrava sempre nel normale alveo comunitario. Una volta purtroppo sono stato testimone di qualcosa che avrebbe potuto produrre gravi conseguenze, ma in seno agli adepti di un solo partito, la DC, quello che, per la particolare costituzione, avrebbe dovuto invece dare l’esempio a tutti! Era il 1974 e si qualificava il turno di nuove elezioni amministrative. Consigliere eletto nella trascorsa tornata, non mi è venuta più la voglia di proseguire, anzi debbo dire che mi ero sentito obbligato ad aderire dietro l’insistenza di quotati amici. Non ero entusiasta d’immischiarmi in un agone politico anche perché m’immaginavo tanti possibili e poco nobili retroscena. Per fare il politico ci vuole davvero un fegataccio ed essere rotto a iniziative non sempre encomiabili. Ma veniamo a noi. Fuori dalla corsa a nuove elezioni di mia spontanea volontà, ero però rimasto vincolato nel direttivo del partito come consigliere. Non volevo romperla tutta, ma, col senno di poi, vi avrei di certo ottemperato.

Quell’anno la lotta per accaparrarsi la maggiore quantità di voti e il sostegno di gran parte degli eletti si giocava a man bassa. Ma, contrariamente al solito quando la proposizione del candidato sindaco era pacifica, i due galletti che si contrapponevano da tempo (peraltro l’outsider, che in origine prima militava anche se non in maniera eclatante in altra formazione, era stato cooptato dall’altro. Dice un noto proverbio calabrese: cu’ intra ti menti, fora ti caccia. Niente di più vero!), davano adito a soluzioni proprio fuori dal normale arrivando a trescare con un partito prima sempre avverso e le velate minacce non mancavano. Si sperava che tutto procedesse civilmente, ma non è stato così. Alla riunione di partito che doveva risultare conclusiva nella sede ordinaria di Corso Vittorio Emanuele II c’eravamo tutti, candidati eletti al Consiglio Comunale e componenti della Direzione. Faceva molto caldo in ogni senso e l’aria che si respirava non era sicuramente delle più accoglienti anche perché si era vociferato che più d’uno sarebbe arrivato munito di pistola. Sono entrato piuttosto titubante e mi sono collocato nel gruppo assieme agli altri, ma, quando mi sono accorto che due volponi cercavano di prendere posto vicino alla porta piuttosto che in sala, mi è venuto immediatamente un cattivo pensiero. Con la scusa di contattare un collega ch’era uscito, al ritorno mi sono sistemato avanti a loro. Subito uno sguardo attento da parte dei due, come per dire: Ci hai fregato! Intanto, fuori c’era un viavai di gente che attendeva di conoscere come si sarebbero svolte le cose. Dove è andata mai a finire tutta quella miriade di persone? In breve tratto passeggiavano con viva attenzione su e giù anche il capitano della polizia e il maresciallo dei carabinieri Martino. A un bel momento dentro si dà il via alle singole concioni. Quando un consigliere dal tono enfatico propone la propria candidatura a scattare con animosità è l’ex sindaco, che voleva fortemente la riproposizione, il quale, afferrata una sedia, gli si lancia contro per colpirlo. A quel punto non ci ho visto più. Spalanco la vetrata, chiamo i due militari e li metto immediatamente sull’avviso: Venite, perchè perché qui si stanno ammazzando! Indi, insalutato ospite, me ne sono decisamente involato. Vedendomi uscire e sentendo del trambusto tutti fuori a chiedermi notizie su quanto avvenuto. Ho detto solo: é uno schifo! Fin qui la mia diretta testimonianza.

   Ho saputo dopo, vero o non vero, che il padre del principale antagonista era intervenuto da una casa vicina con un coltello, ma, conoscendo colui che riferiva la notizia, non c’è da credervi eccessivamente. Farfugliava di essere stato ferito a una mano, ma il giorno dopo non si notava alcunchè. In realtà, tutta la massa di gente ha fatto ressa nel locale e non si è capito più nulla, quando di colpo è venuta a mancare la corrente elettrica (fatto voluto?). Immaginarsi la confusione a che punto sarà arrivata. Mi diceva l’indomani un egregio esponente del Partito: ci siamo ritrovati d’improvviso con tutto il paese dentro e non è stato per nulla agevole potersi districare da quella massa. Sedata ogni cosa, fuori fino a tarda notte si sono formati tanti capannelli nei quali ognuno diceva la sua. Non è mancato il lato comico. Dopo di me frettolosamente era uscito altro personaggio, ma, non essendosene accorti o volutamente, in tanti hanno declamato che quegli, che nella congiura era parte in causa, era scappato per primo e in breve era già pervenuto sulla costa Viola. Quando si dice la brutta nomèa! Il giorno dopo non mi restava altro da fare che recarmi all’ufficio postale e presentare con raccomandata le dimissioni al Direttivo Provinciale. Altri lo hanno fatto, ma soltanto in sede comunale, per cui ne hanno passato di cotte e di crude prima che si arrivasse a una soluzione. Plaudivano al mio gesto, ma, nonostante li avessi consigliati opportunamente a imitarmi e di mandare tutto e tutti a quel paese, non avevano avuto il coraggio di farlo. Qualcuno, dopo averne passate ancora tante, si diceva pentitissimo per non avermi dato ascolto. Così è finita in gloria la mia brevissima e forzata carriera politica.

   Qual è stata la conclusione? Si è trovato un posto altolocato per uno degli antagonisti e la contesa alla fine è sbollita e così DC e PSI, dopo tante lotte anche furibonde, hanno amministrato assieme. Però, quel che non ti aspetti! Ammalatosi gravemente il sindaco, in seguito non è stato tutto rose e fiori. Tramontato l’idillio, sono ricominciate le tresche. Dopo appena alcuni anni (1975-1978) quegli, ancora giovane, ha terminato inopinatamente la sua vita e tutto è finito nelle mani del consigliere male incappato in occasione del tafferuglio nella sede della DC. Si è tirato bene o male fino alla fine della legislatura, quando si è dato il via a nuove elezioni. L’ex-sindaco non riproposto ha presentato una sua lista all’insegna di un Libro. Risultato: non si è qualificata alcuna maggioranza, per cui non restavano che le dimissioni. A questo punto, dopo la fase commissariale, ritorna in campo colui che per tantissimi anni, dal 1952 al 1964, aveva guidato eccellentemente il Comune. Date le difficoltà partitiche, si è fatto nuovamente ricorso all’alleanza col PSI, ma stavolta senza mene sottobanco. Da parte di tutti si è chiesta un’alleanza con canoni ben precisi controfirmata dai segretari dei due partiti e da due persone rispettabili. Era il 15 novembre 1980.

    Anche se io ero stato al corrente come tutti dei vari maneggi intercorsi, sono venuto a conoscenza del documento appena nel giugno del 2009. Mi è stato offerto come cimelio storico dal defunto amico prof. Antonio Musicò, uno dei firmatari. Data la poca leggibilità dello stesso, ne ripropongo qui la parte iniziale: 
 
...esaminata la situazione politico-amministrativa che si è determinata nel comune di Oppido Mamertina dopo le elezioni del venti di Giugno con l’apertura di una crisi grave, le cui conseguenze non sfuggono ad una forza politica responsabile;

    considerato che con lo scioglimento anticipato del Consiglio Comunale incombe ai partiti politici il dovere primario ed ineludibile di proporre soluzioni meditate ed adeguate alla gravità della crisi medesima, il segretario democristiano e il segretario socialista sono concordi nel ritenere indispensabile sin da ora l’impostazione di un serio discorso tra i due partiti al fine di assicurare le maggiori garanzie di governabilità del Comune nell’ambito di precise e chiare scelte politiche”.


    Dal 1980 al 1989 tutto è scorso piuttosto liscio, ma nell’ultimo anno ancora una mazzata, la morte improvvisa del sindaco, per cui si è dovuta ripetere l‘ennesima soluzione. Anche questa non è durata a lungo perché il solito sindaco, per ragioni legali, è stato costretto a dimettersi. Di nuovo un ricambio e via daccapo. È successo di tutto. Hanno fatto amicizia perfino oppositori storici come comunisti e missini. E fermiamoci qui!

Rocco Liberti

sabato 30 marzo 2024

LA PASQUA DIMENTICATA DELLA CALABRIA BIZANTINA ( di Bruno Demasi)


   Non è una favola, anche se ne ha la suggestione: la grande tradizione pasquale bizantina ha  impregnato di sé tante delle nostre contrade calabresi permeandole di struggenti rievocazioni della Passione e della Resurrezione e riempiendole di contenuti culturali che hanno lasciato il segno. Erano liturgie sontuose, fisse nel tempo, mai improvvisate, che hanno risuonato a lungo nelle chiese e soprattutto nei monasteri della Calabria bizantina nei quali i riti pasquali raggiungevano il massimo del loro splendore e del loro pathos. Per averne una sia pur pallida idea oggi avremmo qualche possibilità recandoci nel monastero di S.Elia e Filarete di Seminara o, forse di più, nel monastero di San Giovanni il Mietìtore (Theristis) a Bivongi dove ancora vivono i monaci aghioriti che l’hanno fondato provenendo direttamente dal Monte Athos. Quello di San Giovanni a Bivongi è un monastero unico in Calabria, anzi in Italia, che conserva non solo nella tradizione e nella dottrina, ma persino nelle sfumature e nelle suggestioni liturgiche, tutto ciò che è stato il rito greco nelle diocesi bizantine, come Oppido e Reggio, e che tanta civiltà ha fecondato e cullato in questa terra. 

    Come oggi per noi , anche ieri la sontuosa Pasqua bizantina rappresentava l’acme dell’intero percorso liturgico annuale: “la” festa, madre di tutte le altre feste dal momento che l’intero anno liturgico nel mondo greco è ed era completamente proiettato verso la Pasqua e contemporaneamente da questa festa traeva il suo inizio ciclico. La grande vittoria di Cristo sulla morte per i cristiani d’Oriente ieri, come oggi, era ed è motivo concreto di grandissima gioia per tutti, non solo una ricorrenza, non solo qualcosa di simbolico. Addirittura le settimane di Quaresima avevano ed hanno inizio il lunedi, per poi cambiare repentinamente ed iniziare dalla domenica , a partire appunto dalla Pasqua.
                                                           
  E dalla domenica prendevano inizio anche i cicli delle letture bibliche e degli otto toni, cioè gli otto modi musicali che commentavano e sottolineavano le parole della liturgia, dando ad esse un carattere che la semplice lettura non potrebbe mai rendere. Di tutti i modi musicali possibili la Chiesa bizantina, anche in Occidente, ne aveva scelti otto, ancora oggi usati nei monasteri di tradizione orientale, per la loro capacità di sollevare l'animo verso la contemplazione delle realtà celebrate.

    La dirompente gioia pasquale, che riempiva davvero i cuori  semplici di tutta la gente, si rendeva visibile nelle contrade del nostro territorio medinte vari segni e simbologie presenti nelle prescrizioni e nelle tradizioni liturgiche in uso  prima dell’abolizione del rito greco:

· Ogni momento della liturgia pasquale era scandito da testi esclusivamente cantati e proclamati in maniera gioiosa e solenne;

· La gente aspettava la profonda e commovente catechesi di San Giovanni Crisostomo che, senza alcuna improvvisazione,  apriva la festa e veniva letta con tono solenne dal sacerdote e che, sebbene fosse ripetuta ogni anno, era ansiosamente attesa dal popolo perché ribadiva la Misericordia del Signore pronto ad accogliere anche l’ultimo dei poveri nel banchetto della fede con tutte le sue succulente vivande. Una catechesi che ribadiva  che con la Pasqua la morte non doveva essere più temuta poerchè era stata sconfitta per sempre dalla gloria di Cristo;

· Esattamente a mezzanotte iniziava la processione e tutti i fedeli, recando in mano una candela accesa, confezionata con cura e sacrificio con la cera fornita loro dalle api allevate in grande quantità, giravano intorno alla chiesa o al monastero, mentre all’interno venivano accese tutte le candele possibili e si iniziava a bruciare una gran quantità di profumatissimo incenso;

· Si spalancavano le tre porte dell’iconostasi, la parete di legno decorata dallo splendore di mille icone, che divideva la parte sacra riservata ai sacerdoti da quella destinata ai fedeli, e le stesse rimanevano aperte fino al sabato successivo, simboleggiando che la resurrezione di Cristo rende tutti uguali

· L’icona pasquale, elaborata secondi gli stilemi dell’icona originaria conservata in un monastero del Monte Arhos ( rappresentava il Cristo vittorioso sulla morte,  che, porgendogli la mano, riaccoglie nel suo regno di gloria Adamo, mentre Eva rimane ancora in attesa di essere chiamata. Dietro questa scena , ordinati in due gruppi, i giusti dell’ Antico Testamento) veniva esposta la notte di Pasqua e vi restava per quaranta giorni;

· La Resurrezione , culmine della fede, veniva celebrata gioiosamente attraverso la lettura e il canto dello Stichirà, un testo liturgico e poetico risalente al VI secolo nel quale la gioia pasquale veniva cantata monodicamente ribadendo il perdono fraterno e i passaggi più salienti delle vibranti omelie pasquali di Basilio Magno, Gregorio Nazianzeno e Giovanni Crisostomo;

· La celebrazione eucaristica aveva le proprie specifiche  antifone e, nel canto solenne,  il Vangelo veniva proclamato in varie lingue per significare la gioia universale scaturente dalla Resurrezione;

· Il saluto pasquale: Christos anesti! Alitos anesti! che reiterava all’infinito la Resurrezione di Cristo, si udiva sulle bocche di tutti non solo all’interno della chiesa, ma anche come semplice saluto per le strade. 

                                           
           

     Una gioia sovrumana caratterizzava la vita di tutti durante il periodo pasquale e veniva additata ad esempio la Madonna , cui venivano elevati inni dolcissimi e odi solenni che ne celebravano la santa e divina maternità dopo il travaglio penoso della Passione riecheggiato nel celebre canto O gliki mou ear. (O dolce figlio) rimusicato in tempi moderni e portato alla ribalta internazionale dal grande Vangelis e dalla voce sublime di Irene Papas.

sabato 23 marzo 2024

IL MARTIRIO DI UN GIOVANE CATTOLICO OPPIDESE, FRANCESCO MITTICA (di Rocco Liberti)

    Ciò che non commisero i campi di sterminio nazisti negli ultimi anni della II guerra mondiale fu portato a compimento dalle condizioni estreme di vita in cui dovevano sopravvivere i prigionieri  di guerra in Germania e nei paesi limitrofi. Francesco Mittica fu forse uno dei tanti, ma lasciò di sé un’impronta indelebile, distrutto dal freddo e dagli stenti “ di questo lurido mondo”, com’egli scriveva alla sua famiglia, consapevole della sua fine imminente. Aveva dato tutto se stesso ai compagni di prigionia, medico dei corpi straziati dalla fame e dal freddo, medico delle anime che non vedevano altro che buio, mentre egli si nutriva senza dubbi e senza reticenze di quella luce di Bene che mai lo abbandonò, in una dimensione di carità quasi sovrumana. Una dimensione fatta emergere lucidamente da Rocco Liberti in questa stupenda pagina rievocativa, che fa seguito al suo libro sulla figura di questo martire calabrese e cattolico troppo presto dimenticato. Un giovane che aveva dedicato tutta la sua vita alla dimensione cattolica, per la quale si era battuto insieme al vescovo Galati durante i noti fatti che furono da sfondo a un notevole ed inevitabile contrasto tra la Chiesa e Fascio e si era nutrito poi con Mons Peruzzo di quella linfa cristiana vera e senza orpelli che aveva animato anche questo lembo di Calabria e che, insieme alla carità silenziosa, aveva fatto dell’intransigenza il proprio unico decoro. Ancora una volta Rocco Liberti, rievocando con commozione e con pochi tratti magistrali questa figura adamantina e poco conosciuta, riesce a farci dono di esempi altrimenti sepolti che hanno reso , e forse renderanno ancora più grande in tempi migliori, il mondo cattolico.
(Bruno Demasi)


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   Dopo l’8 settembre del 1943, come noto, l’Italia si è trovata divisa in due tronconi. Da una parte c’erano le popolazioni fedeli alla nazione e affrancate dall’occupazione militare alleata, dall’altra quelle finite sotto il giogo tedesco e affidate al regime fascista repubblichino. Naturalmente, dal caotico frangente che si è venuto a creare non poteva che sortire una contrapposizione in ogni senso. Stanchi di una conflitto lungo e impopolare e spinti dal desiderio di tornare ad essere padroni in casa propria, molti giovani, per come possibile, si sono opposti e dati alla macchia inquadrandosi nelle formazioni partigiane. E in tanti hanno finito per offrire alla Patria il loro contributo di sangue.

  Di Oppidesi che hanno fatto la guerra partigiana abbiamo scarse notizie. Era notoriamente chiamato “partigiano” Enzo Surace di Messignadi, che, a quel che si sa, tra l’1-9-1944 e l’agosto 1945 dipendeva dal Comando della 4° Divisione Garibaldi nella 9a Divisione G. L. in Piemonte. Nato il 20-12-1920, è morto nel paese nativo nel 2008. Fino a questa data stimavo si trattasse di un soprannome, particolarità ricorrente a Messignadi, ma quanto comunicato anche sui giornali mi ha portato alla realtà. Si sarebbe potuto comportare sicuramente animosamente anche Tullio Tripodi, oppidese, ma questi è purtroppo incappato subito in una triste sorte. Fuggito dalla Questura di Modena, dove prestava servizio quale agente ausiliario, assieme ad altri 15 commilitoni, si è recato in montagna per raggiungere le bande irregolari forte di un documento di riconoscimento rilasciato dal Comitato di Liberazione Nazionale della stessa città. Ma il feroce capo Nello Pini, non ritenendo valido un tale atto e sotto la falsa accusa di essere delle spie, ha dato ordine di fucilare tutti i 16 agenti. I poveri giovani sono così caduti per mano di italiani il 15 giugno 1944 a Montemolino di Palagano di Montefiorino. Non è però trascorso molto perché lo stesso Pini il susseguente 31 luglio veniva giustiziato unitamente ad alcuni del suo entourage da altri partigiani insofferenti della sua riprovevole condotta[1]. Al contrario, ad essere ucciso perché fascista è stato Nino Manna. In quei tristi frangenti il fratello uccideva il fratello.

    Dallo sfacelo emerge il tenente medico dr. Francesco Mittica. 


          Francesco Mittica, che ha avuto i natali nella nostra cittadina nel 1912, era uno studioso vicino alla Chiesa. Si è laureato in medicina a Messina giovanissimo, appena nel 1938 e si è configurato un pilastro dell’azione cattolica mamertina, di cui ha difeso animosamente le ragioni durante i fatti del ’31 quando il fascismo imperante si era prodotto in un forte urto con la gerarchia ecclesiastica a proposito dei circoli cattolici. Ha principiato ad assolvere al suo impegno con passione e rigore scientifico tanto da riscontrare l’affettuoso attaccamento della popolazione. Lo dimostra appieno l’intervento degli operai oppidesi, che, per la benedizione delle spoglie in cattedrale, non hanno mancato di offrire la loro vicinanza e il loro ringraziamento.

   Nel 1942 al dr. Mittica è giunta la cartolina di richiamo e per lui è iniziato un percorso comune a tantissimi giovani. Inquadrato nella divisione Pinerolo, ha servito la patria alla frontiera, quindi in Jugoslavia e Grecia. Sopravvenuto l’armistizio, ha dovuto seguire la dolorosa trafila del prigioniero. Sballottato nei campi di concentramento di Germania e Polonia, non ha dimenticato di aver lungamente militato nell'azione cattolica e si è offerto sempre ad aiutare chiunque ne avesse avuto bisogno, restando a fianco soprattutto professionalmente dei compagni di prigionia al pari di lui sfortunati. Arrivava spesso a privarsi della razione giornaliera di viveri per darla ad ammalati in maggiore necessità. Lo hanno affermato all’unisono in maniera chiara e decisa compagni d'armi e cappellani.

   Il primo campo ad accogliere il sottotenente Mittica in quell’ottobre del 1943 è stato lo Stalag 307, dal quale egli ha inviato a casa un iniziale scritto. Indi, è stata la volta di Deblin Irena, una località della Polonia, sulla Vistola, dalla quale si è rifatto vivo. Non era di certo un posto di villeggiatura, ma ancora il peggio era lontano e pure lui, come tanti altri, avendo piena fiducia nel domani, si era giocoforza adattato. Questi alcuni squarci tratti da una lettera alla famiglia: ”Qua la vita scorre tranquilla e monotona e Dio sostiene la nostra salute. Il clima è meno duro di quanto credevo, e poi ho molti indumenti; le camerate sono da per se calde e poi abbiamo le stufe. Non ho molto da dirvi sul nostro soggiorno: esso è sopportabile.
   Posso dirvi solo che una volta fatta l’abitudine si è quanto mai rassegnati; Del resto i confort
i spirituali non mancano. Abbiamo celebrato un Natale dalle cento Messe ed in cameratesche cordialità”
.

   L’unico assillo che tormenta il prigioniero è quello di non essere edotto della situazione dei suoi in Calabria. La posta tace e soltanto con l’arrivo del 1944 può avere segnalazioni indirette dallo zio Agostino, che, operando in Vaticano, ha la possibilità di corrispondere con la Germania. Intanto, la carenza di cibo si fa sentire e si susseguono quindi gli invii di moduli per la spedizione di pacchi postali contenenti generi alimentari e le immediate positive risposte di amici residenti in particolare al di là della linea gotica

    Da Deblin Irena il nuovo passo è per il lager di Lathen, che così viene descritto da uno dei tanti suoi forzati ospiti:

 “Lathen è una landa, arida, fredda, tanto fredda, col tipico clima di queste zone del Nord-Ovest germanico. Qui il cielo è quasi sempre nuvoloso, le giornate piuttosto piovose ed è raro vedere il sole: solo di tanto in tanto qualche pallido raggio illumina le nostre desolate baracche”.

   A un bel momento pervengono le tanto attese notizie da Oppido, ma si cambia nuovamente di sede e si giunge così a Dorsten nella Westfalia e, quindi, a Kirklinde. Ma siamo ormai in un ospedale di riserva, un vero e proprio lazzaretto. E Fullen non tarderà ad arrivare e con Fullen sarà la fine.

Rientrati a casa e appreso il decesso del loro compagno d'armi ed amico, in tanti si sono fatti allora un dovere di testimoniare alla famiglia il lodevole comportamento umano e religioso tenuto dal loro congiunto nei vari lager per i quali era passato e tutti hanno officiato a una voce le sue benemerenze. C’è l’imbarazzo della scelta. Tra coloro che nella sofferenza gli sono stati molto vicini il s. ten. Francesco Pensabene di Archi, che così ha amato comunicare alla famiglia Mittica:

“A Deblin-Irena ho avuto modo di conoscere le rare virtù, la nobiltà di animo e la grande carità cristiana del mio carissimo amico.
Era noto a tutti gli ottomila ufficiali dei vari blocchi per il suo grande interessamento e per il suo buon cuore.
Era arrivato nel campo senza bagaglio personale, ma carico di medicinali.
Mentre in Infermeria del Campo non si trovava nemmeno un surrogato di asparina (sic!), il nostro Dottore aveva tutto, dai vari tipi di sulfamidici alle diverse qualità di iniezioni.
La sua borsa era nota per la farmacia di tutto lo Stalag.
A causa della scarsa alimentazione e del clima molto rigido e umido molti si ammalavano. Egli andava da camerata in camerata e da blocco in blocco senza guardare intemperie e sacrifici di sorta. Il nome di Ciccio Mittica era noto a tutti nello Stalag.
Quando si voleva qualche medicinale lo si richiedeva al Dott. Mittica.
Rispondeva sempre: Si, guarderò, credo di trovare qualche cosa! Infatti dopo aver rovistato nella borsa farmacia veniva avanti tutto contento: Ecco, diceva; trovato il medicinale prescriveva l’uso”.


   In verità, dai pochi spezzoni di lettere inviate a casa dal dr. Mittica si può dedurre quale fosse il suo modello umano e religioso di vita. Così scriveva dal campo di Deblin-Irena in occasione del Natale 1943:
“Carissimi, dolente di non trovarmi con voi, ma sempre spiritualmente a voi unito, celebro il mio Natale in Polonia, terra di Santi, invocando dal neonato Signore, per voi, le più elette grazie del cielo, nella fiducia di ritrovarci tutti uniti, quando a Lui piacerà… I conforti spirituali non mancano”.
  
     E così in data 15 luglio 1944 dal campo di Dortmund, in altra lettera dalla quale traspare tutto il suo amore per il prossimo e particolarmente per quello che aveva più esigenza:

“Non vi prendete ormai pena di me che sto bene … Ma se è volontà di Dio che io muoia, certo ci sono dei pericoli, io sarò contento e da voi non desidererei altro che cristiana rassegnazione … Vi ringrazio del vostro costante ricordo e delle vostre preghiere: pregate sempre per tutti questi poveri soldati, vere anime in pena, che vivono solo di speranza…”.

    L’ultima lettera che il dr. Mittica ha fatto tenere ai familiari in punto di morte è una rara prova di fede cristiana. Così egli vergava dietro i reticolati quando sentiva che non c’era più nulla in cui sperare:

“Carissimi, scrivo per confortarvi quando leggerete questa mia sarò sparito da un pezzo dalla scena di questo lurido mondo.
Da tempo mi sono ammalato e temo di malattia grave. A ciò contribuì soprattutto il clima umido poco adatto a me, l’animo agitato durante gli allarmi notturni al ricovero e, più di tutto, la mia pessima abitudine, quando stavo bene, a far dello strapazzo per mantenere il mio corpo nei limiti, essendo costretto a vita sedentaria. Iddio punisce la vanità! Il pensiero che mi addolora è dover lasciare voi che riponevate su di me tanto affetto, tante speranze.  
...
Avevate fatto tanto per me primogenito ed ora giungeva il tempo di remunerarvi. Non piangete per me; perdonatemi, sono troppo contento della mia sorte perché tutto viene dagli imperscrutabili voleri divini 
… 
Fate qualche opera di carità per me, specialmente a quegli ammalati che soffrono nella miseria e senza possibilità di cure. Godetevi la parte dei miei beni e ricordatemi sempre suffragando la mia anima.
… 
Saluti ed auguri a tutti i parenti vicini e lontani. Ricevetevi tutto l’affetto di cui sono capaci, oggi più che mai aumentato per Voi e l’ultimo abbraccio per sempre”.

    Questi era il dr. Francesco Mittica: veramente una gran bella figura e di raro esempio.

Rocco Liberti

[1] GIORGIO PISANÒ, PAOLO PISANÒ, Il triangolo della morte: la politica della strage in Emilia durante e dopo la guerra civile, Mursia, Milano 1992, p. 214; ERMANNO GORRIERI, La Repubblica di Montefiorino, edizioni Il Mulino, Bologna 1966.